Il restyling della scuola. Meritocrazia ma anche pluralismo
di Antonio Lovascio • La scuola è il termometro che misura il grado di civiltà di un Paese”. Nel lanciare il suo ambizioso progetto di riforma, il premier Matteo Renzi deve essersi ricordato del celebre discorso pronunciato l’11 febbraio 1950 da Piero Calamandrei, le cui teorie giuridiche ha studiato per conseguire, con una tesi dedicata a “La Pira sindaco” , la laurea in Giurisprudenza. La “scommessa” renziana, accompagnata dagli annunci in serie del Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, è deflagrata come una bomba nelle aule, proprio lì dove si gioca il nostro futuro. Due le linee guida della “Buona scuola”: assicurare – con l’assunzione di 150 mila precari – un corpo docente stabile in grado di gestire un sistema educativo efficiente, che consenta di “trasformare i bambini di oggi in persone e le loro conoscenze in competenze”; il restyling della maturità già da quest’anno (senza “ prof” esterni?), per dare piena attuazione agli indirizzi della riforma Gelmini e per avvicinare l’esame di Stato al mondo che ci circonda, produttivo e non solo.
Un progetto che intende puntare su valutazione, merito e autonomia. Concetti che il nostro sistema scolastico conosce da almeno 15 anni, ma che finora sono purtroppo sempre rimasti sulla carta. E per dare a questo “sogno” un’impronta di concretezza, il Consiglio dei ministri ha subito dato il “via libera” all’immissione in ruolo di 15mila insegnanti. Previsti anche 4.500 unità di personale ausiliario, tecnico ed amministrativo, 620 dirigenti scolastici e 13mila docenti da destinare al sostegno di alunni disabili. Qualcosa dunque si sta muovendo, ma vista la fine che hanno fatto le riforme annunciate dai precedenti esecutivi, è opportuno mettere in guardia dai facili ottimismi, come ha fatto un commentatore serio e preparato come Fabrizio Forquet su “Il Sole 24 Ore”, che alla formazione ed alla ricerca universitaria (per la quale si preannunciano tagli che hanno fatto indiavolare i Rettori) dedica ampio spazio anche nel quotidiano digitale.
Quindi ai genitori è giusto ricordare: se vi aspettate che da quest’anno i vostri figli non avranno più supplenti, scordatevelo. Se avete sentito parlare di premi al merito degli insegnanti, anche. E se poi siete convinti che quest’anno ci saranno docenti madrelingua per l’inglese e nuovi laboratori di informatica, lasciate perdere. Tutto quello che avete sentito e risentito in conferenze stampa, interviste, dichiarazioni politiche in queste ultime settimane sono obiettivi, non atti. I vostri ragazzi tornati sui banchi a metà settembre, hanno purtroppo trovato la scuola di sempre: buone possibilità di cambiare gli insegnanti nel corso dell’anno, piani di studio vecchi, lontananza rispetto al mondo del lavoro, tanta burocrazia in grado di frustrare le migliori intenzioni degli insegnanti e dei presidi più motivati.
Quello che ci hanno raccontato Renzi e la Giannini nei talk-show arriverà più avanti. Forse nel 2015-2016. Dopo un pubblico confronto, già iniziato con toni polemici, fuori dalle assemblee elettive. Dopo un disegno di legge da approvare in Consiglio dei ministri, dopo i dovuti interventi del Parlamento, dopo i relativi decreti attuativi. Insomma, si vedrà. Ma dobbiamo augurarci che almeno parte del progetto “Buona scuola” si realizzi, essendo tutto il sistema dell’istruzione un “asset” fondamentale per rilanciare l’economia e il lavoro in Italia. Un dato su tutti: quasi un terzo della disoccupazione giovanile può essere attribuita alla divergenza tra profili richiesti e competenze dei candidati. Ecco perché c’è fretta di correre ai ripari, come ha esortato anche la Cei, che – con un eloquente “Basta slogan!”- non a caso ha indicato proprio la scuola tra le priorità più urgenti, insieme al lavoro ed alla famiglia.
Per dovere di obiettività, bisogna ammettere che nelle linee guida illustrate dal presidente del Consiglio ci sono novità importanti, a cominciare dal merito e da uno più stretto collegamento tra scuola e lavoro. E molti docenti ed esperti lo hanno opportunamente sottolineato. Ad esempio i più ritengono sia positivo l’avvio della sperimentazione dell’apprendistato a scuola; bene il potenziamento dei laboratori con il coinvolgimento dei privati, bene il raddoppio delle ore di alternanza scuola-lavoro negli istituti tecnici. Apprezzato pure il potenziamento dell’insegnamento dell’inglese (seppure ancora insufficiente), dell’informatica, dell’economia. Molto meno bene, anzi decisamente male, il mantenimento di una impostazione statalistica-burocratica che caratterizza da sempre la scuola italiana. L’autonomia resta una cenerentola, con la gestione di milioni di dipendenti dal centro, i concorsi centralizzati, le maxi-graduatorie. Critiche non sono mancate alla “stabilizzazione” dei docenti. Ed immediata è stata la replica del Ministro dell’Istruzione: < Abbiamo fatto un’analisi molto accurata prima di elaborare la nostra proposta. Si è scoperto che l’età media degli insegnanti precari delle graduatorie è di 40-41 anni, mentre per quelli di ruolo è di 51-52 anni. C’è poi un addensamento di precari in storia dell’arte, lingua, musica, educazione fisica. Questo significa avere un patrimonio di competenze specialistiche che finora non hanno trovato uno sbocco nelle posizioni stabili di supplenza>.
Le 30 mila assunzioni già decise (contro le 80 mila necessarie per coprire gli attuali organici) saranno un beneficio certo per chi verrà assunto o stabilizzato, anche se le famiglie italiane nel prossimo triennio dovranno sborsare 3 miliardi in più, perché anche questo governo- come quelli di Berlusconi, Monti e Letta – non riesce proprio a tagliare gli sprechi nella spesa pubblica. Qualcuno ha suggerito che forse sarebbe stato più opportuno ridiscutere l’orario di cattedra degli insegnanti, innalzandolo, per magari spendere quelle risorse in modo migliore. Ma il tema è complesso e arduo, anche per chi ha dimostrato di non avere timore dei tabù. Eppure gli insegnanti migliori (e più motivati) lavorano già ben oltre gli orari. È a loro che bisogna guardare con un vero investimento sul merito.
Certo, il piano educativo del premier Renzi parte con un’analisi “zoppa”, visto che non si è ancora parlato del rapporto tra scuole statali e private, della delicata ma importante questione del pluralismo scolastico. E che è urgente affrontare con coraggio dopo la pubblicazione del prezioso dossier dal titolo significativo: “Scuole pubbliche o solo statali?” (Treelle, Quaderno 10, giugno 2014). Da questa accurata e aggiornata ricerca emerge chiaramente che, sul fronte occidentale, mentre negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia e Olanda il pluralismo dell’offerta è vivo e forte, si sta invece spegnendo in Italia. Come afferma un opinionista laico, il professor Angelo Panebianco ( su “Sette-Corriere della Sera”) “il monopolio statale dell’istruzione, al pari di tutti i monopoli , non è un bene”. Per carità, nessuno vuole che lo Stato rinunci al ruolo di regolatore dell’offerta scolastica. Esso svolge questo ruolo anche dove esiste una vigorosa rete di scuole private (quasi ovunque finanziate dallo Stato) . Ma intendiamoci: la “vigilanza” statale è una cosa, il monopolio un’altra. Ecco perché stavolta siamo pienamente d’accordo con il politologo bolognese: ormai è improcrastinabile la creazione “di un vero, serio e credibile sistema di valutazione nazionale che consenta il monitoraggio delle scuole , statali o private che siano, e il controllo della qualità”. Per troppi decenni la scuola è servita alla politica per dare occupazione agli insegnanti e non un prodotto di qualità agli “utenti”. Anche questo va tenuto presente, se si vuole finalmente “voltare pagina”. E parlare di “svolta storica”.