Il ritorno delle virtù
di Giovanni Campanella • L’esclusivo perseguimento di vantaggi di breve periodo orienta le scelte di una parte consistente dell’attuale finanza. Un po’ tutti stiamo sperimentandone le conseguenze sulla nostra pelle. Il progressivo tedio generalizzato per tale situazione ha portato alla ribalta il discorso sulle virtù e in particolare sulla prudenza, tipicamente orientata agli obiettivi di lungo periodo e alla condivisione. Negli ultimi anni essa è stata fraintesa, vista in luce negativa, ridotta a essere semplicemente “avversione al rischio” e contrapposta a doti come audacia e velocità.
Stefano Zamagni, docente di Economia politica nell’Università di Bologna e nella Johns Hopkins University, ha recentemente scritto un piccolo saggio tascabile ma sorprendentemente profondo, intitolato proprio Prudenza, pubblicato dalla Società editrice Il Mulino alla fine di Ottobre 2015. All’inizio, il libro traccia un’identikit della prudenza. Tratta poi brevemente della storia dell’interpretazione di questa virtù, con i suoi alti e bassi. Nella parte centrale, espone le peripezie della prudenza in ambito più prettamente economico. Successivamente è illustrata la missione di tale ritrovata virtù nell’attuale scenario. Alla fine, l’autore auspica che il discorso sulla prudenza venga ulteriormente sviluppato dagli studiosi.
Grazie al libretto, mi sono personalmente reso conto della superficialità della mia conoscenza riguardo al pensiero di Adam Smith. Ignorantemente, ritenevo che il noto filosofo ed economista scozzese fosse meramente un freddo pragmatico elogiatore dell’egoismo dell’uomo e che disdegnasse l’etica delle virtù. Zamagni nota che «la teoria della mano invisibile di Smith viene interpretata, senza fondamento alcuno, a significare che il bene comune può emergere dall’interazione libera di individui le cui motivazioni non includono affatto l’inclinazione al bene comune» (p. 31). Il libretto mi fa sorprendentemente scoprire che Smith scrive Teoria dei sentimenti morali (1759). Smith «nel 1789 – anno precedente la sua scomparsa – riscrive la parte VI della sua Teoria dei sentimenti morali, avvertendo così il lettore: “Ho inserito una parte VI contenente un sistema pratico di moralità dal titolo Carattere di virtù”. E’ in questa nuova parte che troviamo il celebre encomio smithiano del prudent man, dell’uomo prudente» (p. 31). «Anche Smith eredita dalla tradizione dell’etica delle virtù un’antropologia incentrata sulla relazionalità, cioè sull’importanza della dimensione interpersonale. All’individualismo e all’egoismo il filosofo scozzese contrappone la sua visione dell’uomo costruita attorno alle categorie del fellow-feeling e della sympathy, cioè del bisogno che c’è nella persona umana di immedesimazione con l’altro, di trovare una corrispondenza di sentimenti con il prossimo. L’idea di virtù, infatti, è fin dall’inizio legata al rapporto con gli altri, al mutuo riconoscimento. (…) sebbene Smith affermi che per il funzionamento del mercato non è richiesta la virtù dell’amore, al tempo stesso nella sua Teoria dei sentimenti morali ci ricorda che anche al mercato occorrono, come elementi essenziali, altre virtù, prima fra tutte la prudenza. L’esistenza del mercato fa sì che si possa sperimentare una certa assistenza reciproca nei bisogni anche in assenza dell’amore (ma non grazie all’assenza di amore). (…). Per Smith, e per gli altri leader dell’Illuminismo scozzese (Hutcheson e Ferguson), l’esistenza del mercato e la condizione necessaria perché si possano sperimentare rapporti umani liberi e disinteressati, e possa fiorire la vera amicizia. Grazie all’esistenza dei mercati è possibile superare la logica alleato/nemico, liberarsi dai rapporti necessari e di status (come nel mondo feudale), e ritrovarsi in una condizione di uguaglianza, senza la quale non c’è amicizia (il mendicante non può essere amico del benefattore). L’esistenza della società commerciale ci consente quindi di poter scegliere le amicizie non per bisogno o per necessità ma liberamente e “per virtù”, proprio come pensava Aristotele quando ricordava che prima ancora di essere uno zôon politikón (animale politico), l’uomo è uno zôon oikonomikón (animale casalingo), la cui indole, nella conduzione dell’ôikos, è l’ospitalità generosa, il prendersi cura degli altri. In tutte le sue opere Smith non perde occasione per affermare la propria adesione all’etica delle virtù» (pp. 27-31).
Per i presocratici le virtù non avevano ancora accezione morale ed erano concepite semplicemente come abilità nell’ottenere ragione sull’avversario e successo. Invece, i classici, a cominciare da Platone e Aristotele, individuano subito la pregnanza morale della prudenza, la sua importanza e la sua caratteristica inclinazione ad accrescere il bene comune. Questo stretto legame tra prudenza e bene comune viene duramente colpito da Niccolò Machiavelli. «(…) la prudenza da virtù morale diviene arte per il calcolo e per la gestione del potere. Scompare, con il celebre fiorentino, ogni riferimento alla categoria di bene. La prudenza serve al governante per conservare e accrescere il suo potere. (…). Per un verso, la virtù diventa mera tecnica guidata dalla prudenza, quest’ultima intesa come capacità di previsione degli effetti che possono nascere dalle azioni del governante e come abilità nel limitare i colpi imprevedibili della mala sorte. Per l’altro verso, anche quando adopera il tradizionale lessico delle virtù, il cancelliere fiorentino non esita ad affermare e a suggerire che il politico, se vuole conservare il potere, deve essere disposto a sacrificare le virtù, qualora necessario» (pp. 14 e 18). Poi «con Immanuel Kant, e con il deontologismo in generale, il processo di abbandono della tradizione classica intorno alle virtù è di fatto completato. Nella Critica della ragion pratica (1788) non si parla più di virtù, ma di moralità: l’Io è soggetto alla legge del dovere per il dovere. Le virtù non sono più l’espressione delle potenzialità interne alla natura dell’uomo, ma utili mezzi per assicurarsi il perseguimento di determinati scopi. In altro modo, le virtù non identificano pratiche di vita, cioè forme di esistenza legate a tradizioni, contesti, prassi consolidate, quanto piuttosto procedure da seguire in vista di un fine. La domanda fondamentale da porre non è più “cosa è bene essere” – interrogativo al centro dell’etica delle virtù – ma “che cosa è giusto fare”, come esige appunto l’etica deontologica. Pur non totalmente espulsa dal lessico morale, la virtù della prudenza finisce così per denotare la mera obbedienza a regole formali. Per Kant, infatti, la virtù si realizza nel distacco della persona dalla propria animalità: un’azione è tanto più virtuosa quanto più riesce a liberarsi dalla persona. (…). Comunque sia, la fine delle virtù è proclamata da Montesquieu nel 1748 nel suo Spirito delle leggi, dove si apprende che le leggi vanno collocate al di sopra delle virtù» (p. 19-20). Già mezzo secolo prima il pessimismo antropologico di Thomas Hobbes aveva contribuito ad affossare la concezione classica di virtù.
Sul finire dell’800, gli economisti della scuola cosiddetta “marginalista” riducono la prudenza a mera tecnica per massimizzare l’utilità. «Occorre comunque ammettere che gli autori marginalisti sono stati così bravi nel proporre la loro idea di prudenza che ancor oggi, nell’opinione pubblica, l’agire prudenziale viene spesso identificato con quell’agire che serve all’interesse individuale» (p. 41).
Successivamente si incomincia a considerare la prudenza addirittura come un difetto. In finanza è ritenuta spesso «irrazionale mancanza di spirito imprenditoriale» (p. 61). Tuttavia, dove la prudenza è maltrattata e sofferente, prospera il suo vizio antagonista: l’avidità. Tale vizio priva l’uomo della capacità di dono e quindi della possibilità di approdare alla felicità, che è condivisione.
Nel contesto di una generalizzata insofferenza nei confronti di doveri, leggi e autorità, riemerge potentemente l’etica delle virtù. «La soluzione al problema della motivazione etica del soggetto non è quella di fissargli vincoli, o dargli incentivi, ma di offrirgli una più completa comprensione del suo bene. Solo se l’etica cessa di essere considerata come mero insieme di regole, quello della motivazione morale dell’agire cessa di essere un problema, dal momento che siamo automaticamente motivati a fare ciò che crediamo sia bene per noi. Ecco a cosa serve coltivare la prudenza» (p. 91).
Nelle ultime pagine del suo piccolo saggio, Zamagni accosta la prudenza al sostare, pur in un mondo che accelera. Sostare è permettere al pensiero pensante, che considera tutto l’insieme analizzando anche la bontà o meno dei fini, di raggiungere il pensiero calcolante, più veloce ma assai più freddo, riduttivo e privo di per sé di un’autentica direzione.