Francesco alla Sinagoga di Roma, cinquant’anni dopo la “Dichiarazione sulle Relazioni con le religioni non cristiane”
di Stefano Tarocchi • Lo scorso 17 gennaio, dopo la storica visita di Giovanni Paolo II (13 aprile 1986), papa Francesco ha compiuto una visita, la prima da vescovo di Roma, al Tempio Maggiore della capitale, principale sinagoga della città, a distanza di sei anni esatti da quella di Benedetto XVI (17 gennaio 2010).
Se la visita di Giovanni Paolo ha rivestito un ruolo ineguagliabile nei rapporti con i «fratelli maggiori», come ebbe a definirli papa Wojtyła, quella delle settimane scorse di Francesco avviene in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II, già ricordata lo scorso dicembre in un documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Tale documento insiste sulla dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico e quindi evidenzia l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei.
D’altronde, come ha notato Francesco, la dichiarazione conciliare, «ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo». Così «i cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele».
Il lucido testo promulgato cinquant’anni fa da Paolo VI, che si firmava «vescovo della chiesa cattolica», dopo aver parlato in generale delle varie religioni, da quelle orientali all’Islam, al paragrafo 4 recava scritto: «tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: «ai quali appartiene l’adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Romani 9,4-5), figlio di Maria vergine».
Così Francesco si pone con i papi che lo hanno preceduto, nella scia di una tradizione ininterrotta, che ha dovuto superare più di un dramma nel corso della storia, composta di elementi capaci di scavare fossati profondi. Richiamo soltanto l’Orazione del venerdì santo, la famigerata «pro perfidis Judaeis» [ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum], in realtà coniata nel VII secolo come risposta alla “dodicesima benedizione” ebraica dell’Amidah, la “Preghiera in piedi”, che in una sua formulazione costituiva una vera e propria maledizione espressamente rivolta contro i “nazareni”, i seguaci di Gesù. Anche se dal concilio Tridentino, fino alla riforma conciliare del Vaticano II – a parte i recenti tentativi di restaurazione – venne usata solo nella grande preghiera universale dopo la lettura della Passione, di fatto ha influenzato (e forse influenza ancora) generazioni di credenti, nella catechesi e nella predicazione.
Ma la visita di Francesco alla sinagoga di Roma arriva anche in un tempo particolare, fatto «delle grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare», a cominciare da quell’ecologia integrale che il papa definisce come «ormai prioritaria», e, pertanto «come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato».
Quindi Francesco conclude: «noi dobbiamo pregare con insistenza affinché Dio ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita».
Cinquant’anni dopo aver ricuperato le comuni radici condivise, ebraismo e cristianesimo si propongono di trovare nuove, non semplici, vie di un cammino condiviso.