di Stefano Liccioli • Nel numero di gennaio di questa rivista avevo trattato il tema dei giovani e la fede con la promessa, implicita, di ritornare sull’argomento tanto è la sua complessità che mal si presta a semplificazioni e generalizzazioni. L’occasione per continuare a parlare di questo tema me la dà un libro dal titolo “Dio a modo mio”, curato da Rita Bichi e Paola Bignardi e pubblicato nel 2015 grazie al contributo dell’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, l’ente fondatore dell’Università Cattolica.
Il testo prende spunto da delle interviste che sono state fatte a centocinquanta giovani italiani, da Nord a Sud, tra i diciotto ed i ventinove anni, tutti battezzati, interrogati sul loro rapporto con la fede, sulla loro esperienza del cammino d’iniziazione cristiana, sui motivi che, in certi casi, possono averli allontanati dalla Chiesa. A commentare, analizzare e sviluppare queste ed altre informazioni i contributi di vari studiosi che hanno riflettuto sulla “fede vissuta” dai giovani in famiglia o nelle comunità, sul loro rapporto con la Chiesa ed i sacerdoti.
Prima di richiamare alcuni passaggi di questi contributi, mi sembra interessante tratteggiare, grazie ad una ricerca condotta nel 2013 sempre dall’Istituto Toniolo, la relazione tra il mondo religioso e quello giovanile italiano, con un riferimento particolare al Cattolicesimo. I giovani che dichiarano di credere nella religione cattolica sono il 55,9%, quelli che si dicono atei sono il 15,2%, agnostici il 7,8%, credenti in qualche entità superiore il 10%. Tra coloro che si professano cattolici, solo il 24,1% è un praticante settimanale. Piuttosto critico anche il giudizio nei confronti della Chiesa Cattolica a cui viene assegnato un voto medio di 4,0, in una scala da 1 a 10.
Dati, a mio parere, che aiutano a capire meglio il contesto in cui si sono svolte le interviste ai centocinquanta giovani.
Uno dei contributi del libro è di Luca Bressan che, interpretando le riposte di ragazzi e ragazze, mette in luce quanto essi vivano la fede da “cattolici anonimi”, cercano cioè di stare nello spazio della tradizione cristiana quanto li basta, senza assumere obblighi o impegni:«Ognuno si costruisce in questo modo la propria fede e il proprio cattolicesimo, dentro una tradizione di fede ufficiale che gli serve come contenitore, ma con la quale non si identifica». Su questa linea Cristina Pasqualini afferma come si cerchi tra i giovani dei modi più personali di vivere la fede con cui, magari riavvicinarsi anche alla Chiesa, dopo quei periodi che l’autrice definisce di distacco fisiologico.
Michele Falabretti, direttore del servizio nazionale di pastorale giovanile, nel suo intervento mette in risalto le differenze tra i percorsi di socializzazione alla fede proposti a ragazzi e ragazze al Nord, al Centro o al Sud Italia. E’ così che, ad esempio, se al Nord sono nevralgici in tali percorsi le parrocchie o gli oratori, al Sud invece sono più protagonisti le realtà associative oppure religiosi (salesiani o francescani sono i più citati) o alcuni sacerdoti che si «organizzano più per sensibilità personale che per condivisione di una pratica con il resto della diocesi». Non esistono, conclude Falabretti, soluzioni pastorali universali […]. La fede rischia di spegnersi se si abbassa la qualità testimoniale degli adulti, se sparirà il “popolo di Santi” minori e feriali capaci di esprimere la loro fede nella cura, nell’accompagnamento e nella carità.
Significativa la riflessione di Giordano Goccini il quale evince dalle risposte dei giovani che essi non riescono ad immaginare una Chiesa senza sacerdoti, ma allo stesso tempo affermano di poterne fare a meno. Emerge un’immagine della vita del prete piuttosto cupa, segnata da rinunce (in particolare il celibato viene visto come una privazione ingiusta). Il prete che i giovani desiderano è uno «che si fa vicino e sa ascoltare i problemi della gente, una guida che accompagna il cammino, un consigliere sapiente che sa comprendere senza giudicare, una persona che testimonia la fede con la propria vita».
Infine un richiamo alle conclusioni di Paola Bignardi secondo cui i giovani si trovano fuori dalla casa comune cristiana perché in essa «non hanno sentito il profumo, sperimentato il calore delle relazioni, la responsabilità di un coinvolgimento vero, l’attenzione di un ascolto interessato». La Bignardi, nel sollecitare nei confronti delle nuove generazioni un responsabilità educativa dentro la vita ordinaria, lancia una proposta:«Perché la Chiesa italiana non dà seguito al convegno ecclesiale di Firenze con un analogo convegno ecclesiale di giovani? Per mettersi in ascolto, per lasciar parlare i giovani, per lasciarsi provocare da loro, e per lasciarsi rinnovare dalla loro giovinezza».