Cuba: la capitale dell’unità
di Alessandro Clemenzia • Chiunque si aspettasse che nella Dichiarazione congiunta firmata da Papa Francesco e da Kirill, Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, fosse contenuta chissà quale messa in discussione dell’attuale forma istituzionale della Chiesa, sarà rimasto sicuramente deluso. E questo perché spesso si vive nella ricerca di notizie eclatanti piuttosto che in un atteggiamento di accoglienza di una Verità che è sempre “altra” rispetto ai progetti umani, e li trascende costantemente. Ciò che è contenuto nella Dichiarazione, tuttavia, non è neanche un banale collage di prese di posizione comuni su argomenti di attualità, come se si trattasse di una possibile via di fuga dall’affrontare questioni ecclesiologiche di altro livello.
Eppure, è proprio all’interno di quei trenta articoli che scandiscono il Documento che si può cogliere, non soltanto la rilevanza dell’evento che si è realizzato a Cuba lo scorso 12 febbraio (colloquialmente ricordato come “lo storico abbraccio tra Papa Francesco e Kirill”), ma anche la natura stessa della Chiesa, nella sua autocoscienza più profonda.
Dal primo fino all’ultimo articolo si può scorgere l’importanza che è stata conferita all’avvenimento: si ha a che fare con un incontro che è «il primo nella storia» (n. 1), e che rende «pieni di gratitudine per il dono della comprensione reciproca» (n. 30).
Un incontro così nuovo e fondativo da essere riuscito addirittura a far appellare diversamente il luogo in cui esso si è realizzato: Cuba, Repubblica che, all’inizio della Dichiarazione congiunta viene ricordata soltanto per essere «all’incrocio tra Nord e Sud, tra Est e Ovest […], simbolo delle speranze del “Nuovo mondo” e degli eventi drammatici della storia del XX secolo» (n. 2), nel discorso di Francesco, pronunciato al termine della firma comune e del discorso di Kirill, viene finalmente denominata “la capitale dell’unità”.
E proprio quest’ultima denominazione può aiutare a far emergere alcuni aspetti ecclesiologici, anche impliciti, presenti nella Dichiarazione comune.
Che per “unità” non si debba intendere il raggiungimento di una condizione finale in cui l’altro viene inglobato e ridotto a sé, dovrebbe ormai essere una certezza di patrimonio comune. Ed è proprio di fronte alla non possibile ovvietà di questa logica che Francesco e Kirill prendono una comune posizione, facendo riferimento in particolare a quella dinamica relazionale chiamata “uniatismo”: «Oggi è chiaro che il metodo dell’“uniatismo” del passato, inteso come unione di una comunità all’altra, staccandola dalla sua Chiesa, non è un modo che permette di ristabilire l’unità» (n. 25).
L’unità, in altri termini, non è un movimento dell’io che esce da sé per prolungare la propria personalità nel tu, costringendo così quest’ultimo ad abdicare alla propria identità: ma è un io che riconosce e accoglie l’alterità del tu e si riconosce in qualche modo determinato da questo incontro. Se questo è vero, per quale motivo Francesco e Kirill non hanno soffermato maggiormente la loro attenzione sul rapporto che intercorre e dovrebbe ancora svilupparsi tra la Chiesa di Roma e quella di Mosca, al posto di estendere il loro sguardo su una realtà apparentemente “neutra”, quale la civiltà umana?
Proprio attraverso una risposta a questa domanda si può intravedere nel Documento una caratteristica ecclesiologica fondamentale.
L’unità – teologicamente intesa – non è semplicemente una relazione duale, seppure determinata da un reciproco riconoscimento tra un io e un tu, ma chiama in gioco un terzo, verso il quale – insegna Riccardo di San Vittore a proposito della dinamica dell’amore – l’io e il tu rivolgono il loro comune sguardo. Cuba può essere a tutti gli effetti denominata «la capitale dell’unità» in quanto Francesco e Kirill, dopo essersi riconosciuti e affermati reciprocamente, hanno volto il loro sguardo verso un’unica direzione: le attuali gioie, speranze e ferite del genere umano.
Questa dinamica, inoltre, afferma una verità profonda anche sulla natura della Chiesa, in quanto essa ha un’esistenza prettamente relazionale: essa è, nel rimandare costantemente ad altro-da-sé, come afferma la Costituzione dogmatica Lumen Gentium: «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).
Non è, dunque, soltanto ciò che è e rimane alle spalle a “consumare in unità” la Chiesa di Roma e quella di Mosca, vale a dire la comune Tradizione nel primo millennio, ma è anche questo attuale sguardo, nel reciproco riconoscimento, rivolto verso un’unica direzione a realizzare «una concorde testimonianza alla verità» (n. 7). E la con-cordia, come si può intuire dal termine stesso, non richiede un’unicità chiusa e singolare, ma un’unità aperta e plurale.