di Francesco Vermigli • Da alcune settimane si dispiega – irradiato dalla luce che si spande dal sepolcro vuoto – il tempo pasquale. In esso la Chiesa celebra la vittoria della vita sulla morte, la redenzione dal peccato, la liberazione, la speranza certa che viene da Cristo, Signore dell’universo e Redentore. Con un passo indietro, torniamo ai giorni che si pongono come il culmine dell’intero anno liturgico, nei quali si celebra in maniera del tutto speciale quello stesso mistero di salvezza.
L’articolazione liturgica del Triduo attuale è il frutto dell’accoglienza – all’interno della riforma postconciliare – del rinnovamento operato da Pio XII. Esso si realizzò in due momenti distinti: prima (nel 1951) nella riforma ad experimentum della veglia di Pasqua, quindi (nel 1955, in vigore dal 1956) nella riorganizzazione dell’intera Settimana santa. L’aspetto più evidente della riforma piana è l’adeguamento della scansione dei giorni liturgici allo svolgimento dei fatti della vita di Gesù: una corrispondenza che lungo il corso dei secoli si era lentamente affievolita, fino ad estinguersi; come risulta dalla situazione precedente all’intervento pontificio, con la celebrazione della veglia pasquale alla mattina del sabato. Questo tentativo di porre la liturgia in accordo con la storia della Passione, Morte e Risurrezione del Signore Gesù ha un significato grande: il popolo di Dio è condotto a ripercorrere con la memoria i fatti che si succedettero dall’entrata di Gesù a Gerusalemme, fino al sepolcro vuoto e alle prime apparizioni del Risorto. In modo evidente, a godere di maggior beneficio da questa risistemazione liturgica è stato il sabato santo, che acquista un posto proprio; quel posto che l’anticipazione della veglia alla mattina dello stesso giorno negava.
Fra i contributi teologici novecenteschi più significativi attorno al Triduo pasquale, riveste un ruolo di assoluta preminenza quello di von Balthasar; in modo particolare l’amplissimo capitolo dedicato ai giorni della redenzione all’interno di Mysterium salutis, uscito poco dopo separatamente con il titolo Theologie der drei Tage. Nella sua opera risulta straordinariamente valorizzato proprio il sabato santo: che ciò sia stato favorito dalla riforma piana del Triduo, non sappiamo dire; sicuramente, esso deve moltissimo – per espressa dichiarazione del teologo di Basilea – alle esperienze mistiche della luterana convertita al cattolicesimo e sua figlia spirituale, Adrienne von Speyr. Quello che conta è che il sabato santo ottiene, nell’ottica di von Balthasar, i caratteri di un compimento del venerdì. Al cuore della “teologia dei tre giorni” di Balthasar sta non solo la morte come atto volontario di offerta della propria vita (venerdì santo), ma morte come condizione di abbandono e sfiguramento totale della divinità, che rende Gesù in tutto simile ai morti dello sheol (sabato santo). Se vale l’antico adagio quod non est assumptum, non est sanatum – riflette Balthasar – Gesù deve assumere non solo la carne, non solo la condizione dell’uomo – per dirla con Heidegger – come “essere per la morte”, ma divenire pienamente solidale anche con la condizione di coloro che risiedono nel mondo delle tenebre. Egli deve non solo caricarsi dei peccati degli uomini, ma sperimentare la “seconda morte”; la condizione dell’abbandono totale e irredimibile da parte di Dio, ricolmo di ira per il peccato. Alle spalle di queste considerazioni sul sabato, si notano una cristologia debitrice del pensiero fenomenologico (si pensi all’idea dell’abbandono totale della gestalt divina, cioè della forma di Dio da parte di Gesù) e una soteriologia, in cui i tratti vicini al mondo luterano sono prevalenti. La valorizzazione del sabato santo ad opera del grande teologo svizzero passa attraverso accentuazioni problematiche; su tutte quest’idea di un Gesù che verrebbe a perdere la gestalt divina ad un livello così grande, da interiorizzare i peccati del mondo, fino a sentirli come da lui commessi.
Per superare questi aspetti problematici del pensiero balthasariano, forse dobbiamo riconsiderare alcuni spunti della vecchia forma del Triduo, che non devono essere persi in quella riformata. Nell’anticipazione della veglia pasquale alla mattina del sabato santo si deve probabilmente intendere il riconoscimento che il Cristo che scende agli inferi non va a condividere la “seconda morte”; piuttosto che la sua discesa ha lo scopo di annunciare la salvezza nello sheol – in coerenza con 1 Pt 3,19 e 1 Pt 4,6 e con una tradizione iconografica convergente su una discesa di Gesù già in parte trionfante, perché salvifica – nella speranza certa che il Padre lo risusciterà. Forse quel tono di fiduciosa attesa che si apprezza nell’ufficio delle letture e nelle lodi della liturgia delle ore dell’attuale sabato santo, è il punto in cui alcune suggestioni della vecchia forma del Triduo vengono felicemente recuperate; in un contesto generale, tuttavia, più adatto a far rivivere liturgicamente i fatti della storia della salvezza.