di Dario Chiapetti • Una delle esperienze più universali dell’uomo, sia a livello diacronico (lungo tutta la storia) che sincronico (che coinvolge giovani e adulti, ricchi e poveri, orientali e occidentali) è l’amicizia. Ogni cultura e religione fornisce una sua peculiare, ma sostanzialmente simile, visione: l’amicizia è una relazione di intimità tra persone, di condivisione di interessi, pur permanendo quel suo carattere di misteriosità, come si constata nella difficoltà di definirne i connotati in base ai quali si può appropriatamente parlare di essa. In tale situazione appare degno di nota e illuminante l’evento cristiano che svela la natura profonda, il fondamento, la dinamica e il telos di tale esperienza. Stefano Zamboni ha esposto alcune riflessioni a riguardo in Teologia dell’amicizia (EDB 2015), a partire dai cui snodi principali si cerca ora di offrire alcune suggestioni.
Scrive P. Florenskij in La colonna e il fondamento della verità: “Per vivere tra i fratelli bisogna avere un amico, anche lontano; per avere un amico bisogna vivere tra i fratelli, per lo meno essere tra loro in ispirito. Infatti per poter trattare tutti come se stessi, bisogna vedere e sentire se stessi almeno in uno, bisogna in quest’uno percepire la vittoria, anche se parziale, sull’aseità. L’amico è proprio quest’uno e l’amore agapico per lui è conseguenza dell’amore di filìa per lui. D’altra parte perché l’amore di filìa per l’amico non degeneri in una specie d’amore di se stessi […] è indispensabile che si manifestino e aprano all’esterno le energie che dà l’amicizia […] l’amore agapico per i fratelli”.
Riguardo all’amicizia vi è – nota Zamboni – un’evidente polarità: quella tra le immagini di fratello e di amico; ma, in che relazione esse stanno nel loro riferimento al concetto di amicizia, dato che, come si constata anche dal gergo comune, si è soliti combinarle, tanto da dire all’amico: “ti voglio bene come un fratello”? Ebbene, amico dice elezione, fratello dice legame naturale dato. La nozione che maggiormente dice libertà, quella di elezione, sembra, a ben guardare, avvertire la necessità, per inverarsi, di vivere di un legame inalienabile: l’amicizia è connotata dal per sempre e rivela che non è frutto di una scelta tra persone ma di una – afferma J. Caillot – reconnosaince (che è sia riconoscimento che riconoscenza); scrive infatti J.-L. Chrétien: “io non scelgo l’amico, mi scelgo in lui”.
Ciò permette di approfondire quel ‘sentire se stessi almeno in uno per poter amare tutti’ di Florenskij, ovvero quella tensione tra i termini dimensione particolare e universale, legati tra di loro secondo un nesso causale. L’amico è questo uno che fa spazio in sé per accogliere l’altro, dargli dimora e quindi identità.
La dinamica su descritta richiama nient’altro che quella intra-trinitaria e quella relativa alla missione ad-extra di Figlio e Spirito Santo: la kenosi, lo svuotamento che assume l’altro e dal di dentro lo informa della propria natura agapica. Si capisce così come l’amicizia sia immagine del dinamismo trinitario, fatto di unità e distinzione, distanza e intimità, raccoglimento e irraggiamento, e, soprattutto, luogo-di-partecipazione ad esso. In ciò si differenzia l’amor concupiscientiae dall’amor amicitiae: “perdere – scrive Florenskij – la propria anima […], il sacrificio della propria figura personale, della propria libertà, della propria vocazione” per dar la vita all’altro, per farlo essere.
Il contenuto di tale dinamismo di entrata-uscita, di venire-da e andare-verso è il mistero della Trinità. Gesù Cristo, scegliendo i discepoli, li costituisce come suoi amici; e tale costituzione si esplica nel venir messi a parte del segreto più inaccessibile: la vita del Padre. L’amicizia – osserva Zamboni – è communicatio, è comunicazione della parte più profonda e costitutiva di sé.
L’amicizia è perciò il luogo per la giusta comprensione del rapporto io-tu: vedendosi nell’altro, l’io scorge – afferma Florenskij – “la vittoria sull’aseità”. L’amico è il più perfetto alter ego, non nel senso di una proiezione narcisistica di sé nell’altro, in cui si ama sé; ma come colui nel quale la propria eccentrica identità massimamente risalta; colui che, nell’accoglienza amorosa in sé, getta luce sull’altro, presentandosi così come “norma e regola” (Gregorio Nazianzeno).
L’introduzione della norma, che l’uno è per l’altro, rimanda alla polarità che il Signore stesso stabilisce: dono e comandamento (cf. Gv 15,14). Tale risvolto di ordine morale non rappresenta un cambio di prospettiva ermeneutica su quanto detto fin ora ma la sua condizione di possibilità e verifica: come il Figlio è tutto per e nel Padre, i discepoli devono essere tutti per e in lui; solo nella pericòresi kenotica l’amicizia può sussistere.
Ma come intendere l’amore verso i nemici, coloro che certo non corrispondono all’attesa di bene che un’amicizia porta con sé? E se l’amicizia è elettiva, l’amore ai nemici non rischia di uccidere tale connotazione? Tante risposte sono state date dalla storia; certo è che l’amico è insostituibile, ma è nella verità dell’amore tra i due, nel tertium, il sommo bene che lo fonda, che si gioca l’apertura di esso affinché nessuno ne resti escluso.