Maria quae est sancta Ecclesia

 

greshakedi Alessandro Clemenzia • La grandezza di Maria molto spesso, più che in riferimento alla sua esperienza personale, viene colta nel suo essere identificata con la Chiesa. Da questa considerazione che – come si può arguire – va molto oltre il rapporto tra ecclesiologia e mariologia, Gisbert Greshake ha argomentato in modo sistematico lo statuto ontologico del rapporto tra Maria e Chiesa nel suo ultimo libro «Maria – Ecclesia. Prospettive di una teologia e una prassi ecclesiale fondata in senso mariano» (Queriniana, 2017).

La citazione di Cirillo d’Alessandria, riportata nel titolo, «Maria quae est sancta Ecclesia», vuole esprimere sinteticamente l’intima relazione tra le due, tanto che un elemento, Maria, viene identificato con l’altro, la Chiesa. È possibile raggiungere un’unità così radicale tra due realtà così ontologicamente ed esistenzialmente distinte?

Una tale logica riesce a spiegare – secondo Greshake – la possibilità di identificare Maria con la Chiesa, come se appunto la prima fosse una personalità corporativa. Sia per quanto riguarda il rapporto tra Maria e Chiesa, sia per quanto concerne l’intima relazione divina tra Padre e Figlio, è la dinamica dello Spirito Santo a unire distinguendo, e a distinguere unendo: in Lui, i due elementi ontologicamente distinti sono pienamente “uno”, e cioè massimamente distinti. È lo Spirito dunque a inverare identità e differenza tra Maria (la “piena di grazia”) e la Chiesa (animata dal Pneuma divino).

Questa dimensione mariana della Chiesa, quali implicazioni propone per l’autocoscienza ecclesiale?

Greshake risponde a questa domanda proponendo una rilettura dell’aspetto istituzionale della Ecclesia in relazione a quanto affermato circa il profilo mariano.

In questo orizzonte il recupero del profilo mariano della Chiesa non significa spiritualizzare la concretezza della realtà ecclesiale e tantomeno ridurla a un semplice fenomeno devozionale, ma far prevalere sulle strutture l’azione dinamica dello Spirito. «Se Maria – scrive lapidariamente l’Autore – è l’analogum princeps di tutte le dimensioni della chiesa, la forma istituzionale esterna della chiesa non può e non deve presentarsi come se fosse la dimensione essenziale, né mettersi sconvenientemente in primo piano, né infine comprendersi come criterio decisivo di ecclesialità» (p. 468).

Senza entrare maggiormente nella storica questione sulla relazione tra la dimensione istituzionale e quella carismatica della Chiesa, la proposta di Gisbert Greshake sembra veramente offrire un suo contributo nel momento in cui tale relazione trova nel profilo mariano il suo concretum.

Rispetto a queste considerazioni, rimangono tuttavia aperte alcune domande. Se è pur vero che l’istituzione è una realtà “altra” rispetto a quella carismatica, la prima non dovrebbe essere “espressione” della seconda? In secondo luogo, potrebbe esistere una dimensione carismatica che non sia simultaneamente istituzione? Se ciò fosse possibile, ma a mio avviso non è neanche ipotizzabile, tale carisma non potrebbe avere una valenza ecclesiale, in quanto l’istituzione, come la carne per il Verbo incarnato, pur non riuscendo ad annunciare fino in fondo la profondità del contenuto che la abita, è necessaria a chi vive nella storia.