di Leonardo Salutati • Nell’incontro avuto con i lavoratori dell’ILVA il 27 maggio scorso in occasione della visita pastorale a Genova, Papa Francesco ha offerto una serie di riflessioni sul tema del lavoro di grande attualità, pur appartenendo da sempre al bagaglio della Dottrina sociale della Chiesa.
Dopo aver premesso che il lavoro è una priorità umana e, come tale, una priorità cristiana che scaturisce dal primo comando dato da Dio ad Adamo di prendere in carico la custodia del creato (Gen 1,28), il Papa comincia col tratteggiare le caratteristiche che definiscono la figura del buon imprenditore: creativo, innovatore, appassionato della sua attività, orgoglioso della sua e dell’opera dei suoi lavoratori, capace di creare prodotti e di creare lavoro, che conosce i suoi lavoratori di cui condivide la fatica e la gioia del lavoro, che non ama licenziare la sua gente, ma è capace di farsi provocare dalle situazioni di crisi per elaborare nuove idee per evitare il licenziamento. Caratteristiche, tra l’altro, che in parte coincidono con l’idea di imprenditore tratteggiata da Schumpeter che ha molto influenzato l’economia moderna.
Mancando queste qualità l’imprenditore si trasforma in speculatore, figura paragonata da Papa Francesco al mercenario di cui parla Gesù nel Vangelo per contrapporlo al Buon Pastore. Diversamente dal buon imprenditore lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma li vede solo come mezzi per fare profitto. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto. Dietro le decisioni dello speculatore non si vedono le persone da licenziare e quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, essa stessa diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Gli speculatori sono disumani.
Dopo aver tratteggiato la figura dell’imprenditore, il Papa si concentra sul tema del lavoro dipendente. Nel ricordare che il lavoro è luogo privilegiato dell’incontro di Dio con gli uomini, Francesco rileva che la mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere, in quanto lavorando maturiamo come persone. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro che li unge di dignità tanto che attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Per cui quando non si lavora, si lavora male o poco o troppo, la democrazia stessa entra in crisi. L’articolo 1 della Costituzione italiana, afferma che L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro, di conseguenza possiamo dire che togliere lavoro o sfruttare le persone con lavoro indegno o malpagato è anticostituzionale e mette a rischio la democrazia, favorendo privilegi, caste e rendite. Pertanto non ci si può rassegnare all’ideologia che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavorino e gli altri siano mantenuti da un assegno sociale, perché l’obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti ma il lavoro per tutti, in quanto senza lavoro non c’è dignità. Senza lavoro, si può sopravvivere; ma per vivere occorre il lavoro!
Un ulteriore aspetto problematico del lavoro riguarda l’accento sulla competizione all’interno dell’impresa, considerato da Francesco un errore antropologico e cristiano oltre che un errore economico, perché così facendo si dimentica che l’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità. Per cui quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, ben presto mette in crisi quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione, con danni all’impresa che superano di gran lunga i vantaggi ottenuti nell’immediato. Inoltre è importante fare attenzione anche ad una corretta applicazione della meritocrazia, che diventa un disvalore se scade nella legittimazione etica della diseguaglianza, interpretando i talenti delle persone non come un dono ma come un merito. Tale visione si ripercuote immediatamente nella cultura della povertà dove il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole, esonerando i ricchi dal fare qualcosa. È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura e del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo, ma non è la logica del Vangelo né tantomeno della vita.
Papa Francesco osserva infine, che un paradosso della nostra società è la compresenza di una crescente quota di persone che vorrebbero lavorare e non riescono e altri che, lavorando troppo, vorrebbero lavorare di meno ma non possono perché sono stati comprati dalle imprese… come gli schiavi, che non hanno tempo libero. Però senza il tempo della festa il lavoro, anche se superpagato, torna ad essere schiavistico. D’altra parte per poter fare festa dobbiamo lavorare perché nelle famiglie dove ci sono disoccupati, non è mai veramente domenica. Per celebrare la festa è necessario poter celebrare il lavoro. L’uno scandisce il tempo e il ritmo dell’altra.