di Alessandro Clemenzia • All’interno delle lezioni di un corso tenuto da Dietrich Bonhoeffer all’Università di Berlino nel 1932, intitolato Das Wesen der Kirche (L’essenza della Chiesa), si trova una straordinaria contestualizzazione teologica ed ecclesiologica di alcuni temi, quali il sacrificio e l’intercessione, che nell’odierno paesaggio culturale e religioso sono connotati da un’accezione quasi esclusivamente individualistica e devozionale.
Queste lezioni di Bonhoeffer partono da una domanda che muove l’intelligenza del cuore di ogni uomo di fede, vale a dire quale sia «il luogo autentico della Chiesa». Egli offre subito la sua risposta, sviscerandone poi, per tutto il resto del corso, le motivazioni e le implicazioni di essa: «È il luogo del Cristo presente nel mondo». Tale affermazione si ispira a un’immagine di Chiesa o, meglio, a un’identità di Chiesa tutta proiettata nell’inveramento del rapporto, in Cristo, tra Dio e il mondo. Tra Dio e il mondo, infatti, è il titolo di una pubblicazione parziale in lingua italiana di quelle lezioni, recentemente uscite a modo di saggio (Lit Edizioni Srl, Roma 2015).
Bonhoeffer in queste pagine approfondisce la valenza ecclesiale del sacerdozio universale (siamo nel 1932: trent’anni prima dell’indizione del Concilio Ecumenico Vaticano II), presentandolo come modalità attuativa dello «strutturale essere-uno-per-l’altro dei membri». In questo modo, al sacerdozio universale viene dato un significato antropologico di natura più ontologico-relazionale che ministeriale (e dunque funzionale). Ed è proprio all’interno di questo discorso che vengono introdotti i temi del sacrificio e dell’intercessione.
Il primo è qui inteso dal nostro Autore come sacrificio dei beni materiali: «Chi possiede i beni si mette, con la sua proprietà, al posto di chi non possiede nulla; chi è pieno di onori, con i suoi onori, al posto di chi ne è privo». Si può cogliere in queste parole che per sacrificio non si intende rinunciare al già posseduto o al possedibile, ma “assumere” nella propria ricchezza (e senza liberarsi di essa) l’altro, con tutta la povertà e il disonore, vale a dire le mancanze, che lo caratterizzano. Si tratta, in altre parole, di assumere la “forma esistentiva” di Cristo, quella stessa che ha bramato l’Apostolo Paolo, tanto da desiderare di essere anatema e separato da Cristo per il bene dei suoi fratelli (cf. Rm 9,3). L’unione con Cristo, così, si gioca nell’assunzione della disunità dei fratelli lontani per ristabilire in se stessi, per gli altri, l’unità perduta. È un vivere nella propria esistenza la dinamica d’abbandono di Cristo sulla croce, il quale “si è fatto” altro-da-Dio, non-Dio in modo così radicale da divinizzarci. Bonhoeffer descrive questa dinamica come imitatio Christi: non tanto nel senso di imitazione comportamentale, quanto piuttosto un ontologico “vivere-Cristo”, lasciando che sia Cristo stesso a vivere l’uomo e ad abitarlo. La cristificazione, in questa accezione, non è un’immedesimazione con Cristo, ma è Cristo che si immedesima con il singolo io, caratterizzato da una precarietà che si manifesta nei diversi ambiti della sua esistenza.
Dopo il significato di sacrificio viene recuperato nella sua profondità teologica quello di intercessione. Anche quest’ultima viene colta più come azione ecclesiale, non individuale, rappresentativa, che come strumento della propria realizzazione umana e spirituale: «La mia preghiera appartiene alla comunità. La comunità prega nella preghiera del singolo. […] Io sto realmente al posto dell’altro. Io prego vivendo le sue tentazioni, sono accusato dei suoi peccati. Io sono nell’altro». È una dinamica relazionale che non può essere ridotta a un’esperienza psicologica (come dice lo stesso Bonhoeffer) o alla personale capacità di empatia, ma è il “vivere-Cristo”, come si è già visto, per “vivere-l’altro”: vale a dire assumere il negativo dell’altro e così chiedere per l’altro in sé ciò di cui egli ha bisogno (e che ormai l’io possiede come proprio). In tal modo «ognuno può diventare Cristo per l’altro». La cristificazione, che un tempo era colta come individuale divenire alter Christus, viene risignificata all’interno delle relazioni interpersonali, tanto da trovare nel “luogo” della Chiesa la sua condizione di attuabilità; afferma l’Autore: «Senza comunità, l’intercessione non sarebbe altro che magia».
Vivere l’intercessione non implica una conoscenza previa dell’altro: non si tratta di un rapporto tra amici; e questo trova la sua piena visibilità e realizzazione nell’evento liturgico: «Nella liturgia, allora, preghiamo per lo sconosciuto “navigante”, per i suoi pericoli e per i suoi peccati. È questo che mi permette di intercedere per tutti gli uomini».
Non possiamo sicuramente avere la pretesa che tali affermazioni di Bonhoeffer si avvalgano di una certa definitività ed esaustività dei temi accennati, eppure sono espressione di un tentativo teologico legittimo e profetico di ricollocare ciò che sembra religiosamente ovvio e scontato nella sua profondità umana e divina.