di Carlo Nardi • «Perché state a guardare il cielo?» (At 1,11), si sentono dire gli apostoli nell’ascensione di Nostro Signore con un invito a scrollarsi, come a darsi una mossa: a non restare imbambolati nello stupore, come davanti ai fuochi di san Giovanni o nel rimpianto nostalgico di un tempo e di un’esperienza unica e irripetibile.
Stupore e rimpianto che facilmente ridurrebbero Gesù a un toccasana per alimentare sensazioni forti o gratificanti emozioni: comunque a una specie mongolfiera o, oggidì, a un telestar o simili per raggiungere un’efficacia sempre più massmediatica.
Restare a bocca aperta a guardare il cielo è stata una tentazione presente già nel primo cristianesimo, talvolta espressa in sospetti spiritualismi come se a Gesù non fosse parso vero di abbandonare un corpo apparente di cui si sarebbe rivestito. Nel secondo secolo un certo Basilide pensò che sulla croce ci fosse finito Simone di Cirene, ‘cireneo’ fino in fondo, mentre Cristo sarebbe già volato via alla volta del Padre (in Ireneo, Contro le eresie I,24,4). Quindi niente croce, né vera morte né vera risurrezione.
Sempre nel secondo secolo, nei cosiddetti Atti apocrifi di Giovanni, che sono un pio – troppo pio – romanzo religioso, all’apostolo prediletto, sconsolato e piangente al vedere Gesù arrestato, sarebbe apparso in una visione, luminosa e travolgente, lo stesso Signore già glorioso e raggiante a dirgli che quello che avveniva a Gerusalemme – processo, flagellazione, crocifissione e morte – era solo un’apparenza: un volersi liberare dal rivestimento del corpo come se fosse un imbarazzante involucro e così ingannare i giudei che credevano d’averlo crocifisso. Tutto sarebbe stato una messa in scena, perché Gesù era già glorioso e trionfante, senza che ci fosse né morte né, di conseguenza, vera e propria risurrezione: insomma, la passione sarebbe stata un che di evanescente e l’ascensione un tutt’uno con quella fittizia passione di un Cristo raggiante da Guerre stellari (Atti di Giovanni 97-195).
Queste idee risentivano dell’ambiente del tempo, dove si voleva credere o si faceva credere a divinizzazioni di eroi e sovrani nel momento stesso della morte. Anzi, meglio che mai se in punto di morte un intervento divino, il cosiddetto deus ex machina, sottraeva Eracle \ Ercole dalle fiamme del rogo sul monte Eta per catapultarlo nel ridanciano Olimpo degli dei tra nappi di ambrosia e coccole della mogliettina, la sempre bella Ebe, la “giovinezza” in persona.
Ed Eracle diede la stura alle apoteosi: a quella di Romolo, di Cesare “stellificati”, anche quella Claudio, l’imperatore, purtroppo … “zucchificato”, almeno secondo Seneca.
Tutt’altra cosa è l’ascensione di Nostro Signore, che innanzi tutto presuppone la sua vera morte e la sua vera risurrezione, senza sovrapposizioni, concomitanze, corti circuiti.
L’ascensione non parla di evanescenze celesti, ma di fedeltà alla carne nella sua crescita e alla storia nelle sue tappe: anche i quaranta giorni dalla risurrezione, un numero ovviamente simbolico, possono richiamare il tempo della plasmazione intrauterina dell’embrione in feto secondo la biologia di Aristotele.
«Il Signore» Gesù «per diventare il primo dei morti ad essere generato» a una nuova vita (Col 1,18) «è rimasto fino al terzo giorno nella profondità della terra. Poi, successivamente, risorge nella sua carne al punto da mostrare ai discepoli persino le fessure causate dai chiodi e ascende al Padre». Difatti, «il nostro Maestro non se ne volò via subito per andare al Padre, ma attese il tempo determinato dal Padre per la sua risurrezione e, risorgendo dopo tre giorni, fu assunto»: diceva Ireneo (Contro le eresie V,31,2: Sources Chrétiennes 153,392.394).
Quelle tappe, compreso il tempo intermedio tra risurrezione e ascensione, dicono la fedeltà all’attesa, la fatica della pazienza: insegnano a saper aspettare i tempi della carne, dell’umanità, della storia, che sono anche i tempi di un Dio paziente, anche troppo secondo il nostro impaziente modo di vedere. I tempi di attesa, apparentemente morti e insignificanti, assunti anche dal Figlio di Dio nella sua drammatica crescita umana, ci stimolano a saper assumere la fatica della storia, che spesso è la noia dei giorni, con la responsabilità nei confronti di questo nostro tempo, tempo di uomini e donne che ci è dato incontrare.