di Leonardo Salutati • Non c’è alcun dubbio che il fenomeno più positivo della moderna scienza giuridica e delle legislazioni democratiche, specie nelle Costituzioni elaborate dopo i regimi totalitari del secolo scorso, culminato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, è stato lo sviluppo dottrinale e normativo sui diritti fondamentali dell’uomo, che ha contribuito a mettere al centro della realtà giuridica il suo vero protagonista, che non è lo Stato ma la persona umana, con la sua inalienabile dignità e libertà.
È paradossale però che, dalla seconda metà del secolo scorso, stia prevalendo nelle leggi ordinarie di non pochi ordinamenti civili il principio giuridico-positivo, frutto del relativismo morale, secondo cui in una società democratica la razionalità delle leggi dipenderebbe soltanto e unicamente da quello che la maggioranza dei voti decide che venga stabilito, permesso o proibito, assumendo una modalità in cui è giustamente ravvisabile una deriva totalitaria (Giovanni Paolo II). Si pretende infatti di attribuire al legislatore, cioè al popolo sovrano rappresentato nei parlamenti, oppure direttamente esercitante le sue prerogative attraverso le forme di democrazia diretta (per es. il referendum), un potere illimitato, assoluto, capace sia di limitare i diritti innati e inalienabili enunciati nella citata Dichiarazione dell’Onu, sia di inventarsi nuovi diritti, propugnati da ideologie di vario genere.
È però un dato storico (addirittura basta leggere senza pregiudizi il Contratto socialedi Rousseau) che la società democratica è nata da una filosofia sociale che, nonostante tutti i suoi limiti e debolezze, non metteva affatto in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva sulla persona umana e di valori morali universali da rispettare. Infatti democrazia era il modo di eleggere i governanti, di dettare leggi e di decidere, entro determinati limiti, i loro contenuti, di distinguere i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e garantirne l’indipendenza, di controllare l’esercizio della funzione pubblica di governo e assicurarne la legalità. Ma era fuori questione che questi parlamenti, questi governanti e questi giudici dovessero rispettare quel patrimonio di civiltà, di verità e di valori morali oggettivi, che era radicato, o comunque si presumeva che dovesse esserlo, nelle coscienze dei cittadini, cristiani o non cristiani.
È pure un fatto che la legge naturale, scolpita da Dio nel cuore degli uomini, è rimasta nei suoi principi sostanzialmente inalterata attraverso la storia, anzi è stata un fattore decisivo nello sviluppo civile dei popoli e delle culture. Tra l’altro è la legge a cui ci si è appellati nei processi contro i crimini nazisti e contro i crimini nell’ex Iugoslavia. Non è stata inventata dal cristianesimo né da nessun’altra religione, pur se «nei suoi precetti principali essa è stata esposta nel Decalogo», e costituisce «il fondamento necessario alla legge civile, la quale a essa si riallaccia con una riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale» (CCC 1955-1959).
Purtroppo, le moderne ideologie, fondate sul relativismo morale, che insieme all’agnosticismo ed allo scetticismo sono considerati la filosofia e l’atteggiamento meglio rispondenti alle forme politiche democratiche, nel togliere alla democrazia il suo fondamento di principi e di valori oggettivi, hanno attenuato pericolosamente i limiti della razionalità e della legittimità delle leggi. Ciò sta spingendo i regimi democratici a generare un sistema di regole non sufficientemente radicate in quei valori irrinunciabili, perché fondati nell’essenza dell’uomo, che devono essere alla base di ogni convivenza, e che nessuna maggioranza può rinnegare senza provocare funeste conseguenze per l’uomo e per la società, quali sono stati i totalitarismi di opposto segno che hanno sconvolto la storia del ‘900 (Giovanni Paolo II).
È ormai assodato che sia per i totalitarismi del passato che per le moderne democrazie, la razionalità delle leggi non sia stata e non sia più vincolata alla corrispondenza della norma con la natura umana, con la verità oggettiva sulla dignità dell’uomo, con i valori morali oggettivi e permanenti che invece il diritto dovrebbe difendere e tutelare, per poter ordinare rettamente i comportamenti sociali, proteggere istituzioni basilari ed evitare il progressivo sviluppo di una società anarchica piuttosto che democratica, che ceda di fronte alla tentazione di una libertà senza i limiti, realmente liberanti, della verità oggettiva sulla dignità e sui diritti inalienabili dell’uomo e della donna.
Giovanni Paolo II ha sempre con energia ricordato che la democrazia: «non implica che tutto si possa votare, che il sistema giuridico dipenda soltanto dalla volontà della maggioranza e che non si possa pretendere la verità nella politica. Al contrario bisogna rifiutare con fermezza la tesi secondo la quale il relativismo e l’agnosticismo sarebbero la migliore base filosofica per una democrazia, visto che quest’ultima per funzionare esigerebbe da parte dei cittadini l’ammettere che sono incapaci di comprendere la verità. […] Una tale democrazia rischierebbe di trasformarsi nella peggiore delle tirannie» (Allocuzione 1992).
È una lezione da meditare attentamente alla luce di quello che è successo da poco in Irlanda, indubbiamente una sconfitta dei principi cristiani e dell’umanità (card. Parolin), ma che non deve indurci ad una visione negativa o pessimista del futuro. È necessario reagire facendo ricorso alla ragione e alla fede. È questa l’ora delle intelligenze libere e serene, soprattutto nel campo della sociologia, dell’antropologia, del diritto, della politica oltre che della religione e della spiritualità.