di Francesco Vermigli • Nello scorso numero di questa rivista online abbiamo provato a delineare il significato che la figura e l’opera di san Francesco Saverio rivestono ancora oggi per la teologia e per la prassi della missione (San Francesco Saverio, ovvero la radicalità del Vangelo). Nel medesimo anno in cui veniva canonizzato il gesuita navarro – canonizzazione avvenuta il 12 marzo 1622 assieme a Ignazio di Loyola, a Teresa d’Ávila, a Isidoro l’Agricoltore e a Filippo Neri (e il popolino romano se la rideva: “hanno canonizzato quattro spagnoli e un santo…”) – moriva a Lione san Francesco di Sales (il 28 dicembre). Si resta stupiti della vitalità e della varietà che il mondo cattolico ha saputo esprimere in quei decenni turbolenti e grandiosi: la Riforma romana – specialmente mediante lo strumento della prassi della canonizzazione – ha riconosciuto ad alcune figure un ruolo decisivo, nel grande agone contro la mens protestante.
Il vescovo savoiardo ha però uno spazio suo proprio nella storia della Riforma cattolica: predicatore instancabile, scrittore prolifico, è stato anche un teorico mai domo di una Chiesa rinnovata in radice, perché rifondata nella più intima realtà spirituale dei credenti in Cristo. Nel terzo centenario della sua morte papa Pio XI pubblicava una lettera enciclica nella quale salutava in Francesco di Sales colui che aveva ricevuto la missione di «smentire il pregiudizio […] che la vera santità, quale viene proposta dalla Chiesa, o non si possa conseguire, o almeno sia così difficile raggiungerla da sorpassare la maggioranza dei fedeli ed essere riservata unicamente ad alcuni pochi magnanimi» (Rerum omnium perturbationem, 26 gennaio 1923). Si direbbe allora che Francesco tanto nelle sue opere più rappresentative (Introduzione alla vita devota e Trattato dell’amore di Dio), quanto nella sua continua prassi pastorale si presenti sulla scena della storia della Chiesa come uno degli antesignani più rappresentativi di quella che il Vaticano II chiamerà “vocazione universale alla santità” (cap. 5 della Costituzione dogmatica Lumen gentium).
In cosa consiste tale vocazione? Un punto di partenza imprescindibile da ritenere è che l’appello alla santità è iscritto nella stessa sequela di Cristo. Qui le pagine scritturistiche di riferimento sono l’inizio del cap. 19 del Levitico («Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo», Lv 19,2) e la declinazione che Gesù ha operato di tale versetto, secondo quello che ci è stato trasmesso dagli evangelisti («Voi, dunque, siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste», Mt 5,48 e paralleli). Ora, se nella tradizione veterotestamentaria “santità” reca con sé l’idea della separazione – Dio è il Qadosh per eccellenza, perché è il Totalmente Altro rispetto alle creature – ci si potrebbe chiedere come sia possibile applicare l’invito alla santità a coloro che in ragione dello stato di vita costitutivamente non sono separati; vivendo nel mondo e compiendo le proprie opere nel mondo. Vale a dire: come si fa ad essere ad un tempo separati dal mondo e immersi nel mondo?
Il santo savoiardo ha qualcosa da offrire in ordine alla soluzione di questa apparente tensione. Nelle opere maggiori, tanto quanto nel suo ciclopico epistolario Francesco esorta, invita, sollecita a prendere coscienza che la santità non è di per sé legata ad uno stato di vita particolare, ma – insistendo direttamente sulla dimensione battesimale dell’appartenenza a Cristo – è un’esigenza richiesta dall’essere membra della Chiesa. La soluzione che il vescovo savoiardo offre nella propria prassi pastorale e nella propria sistemazione teorica è a ben vedere estremamente moderna.
Il luogo e – per così dire – la condizione presupposta della santificazione dei membri del popolo di Dio è quella stessa realtà profana in cui essi sono immersi. Non vi sono altri luoghi, altre condizioni, altri strumenti e altre modalità per la santificazione dei fedeli se non l’essere inseriti in un mondo, che essi devono trasfigurare, attraverso la propria testimonianza di vita. È richiesto loro di dare un respiro diverso a quelle cose che sono dette “secolari” in ragione del fatto che sono parte integrante di questo mondo (saeculum). È richiesto loro di mettere in pratica virtù squisitamente umane (la competenza lavorativa, l’impegno, l’onestà, la cordialità, la responsabilità…), ma di coronarle con la grazia che deriva da Cristo. È richiesto loro di partecipare attivamente alla promozione e allo sviluppo delle società plurali che abitano, ma nel riconoscimento – che si direbbe “vocazionale” per eccellenza – che quello stesso mondo in cui sono posti, è il luogo in cui si manifesta la volontà di Dio per il singolo, in cui può avvenire per il fedele l’incontro decisivo con la persona di Cristo.
In tutto questo, l’accorato invito – che ha innervato la vita e l’opera di san Francesco di Sales – a cercare nella vita quotidiana l’occasione per la santificazione, attraversa i secoli e raggiunge la nostra Chiesa; alla ricerca spesso dispersa di una base per una teologia autentica e compiuta del popolo di Dio