L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni nell’ermenutica di Chiara Frugoni
di Gianni Cioli • I libri di Chiara Frugoni, celebre storica del medioevo, offrono sempre un apporto significativo al dialogo con l’ermeneutica delle opere d’arte che la teologia sta oggi imbastendo in varie forme. Fin dagli esordi della sua produzione scientifica l’autrice ha sempre preferito un metodo d’indagine capace di valorizzare in egual misura i testi scritti e le immagini artistiche. I suoi saggi, avvincenti oltre che convincenti, attenti ai risvolti teologici dell’interpretazione di un’opera nel contesto e nei particolari, uniscono rigore scientifico, chiarezza espositiva e felicità stilistica. Hanno in genere la capacità di coinvolgere il lettore con percorsi abilmente articolati e che spesso non hanno di che invidiare alla letteratura narrativa. Anche L’affare migliore di Enrico: Giotto e la cappella Scrovegni (Torino 2008) non fa eccezione. La tesi del saggio è suggestiva e appare ben sintetizzata nelle prime righe della quarta di copertina: «Dante pose tra i dannati dell’Inferno il padre di Enrico Scrovegni, Rainaldo, bollandolo come usuraio. Per molto tempo questa condanna ha portato a ritenere che il figlio avesse fatto erigere la cappella padovana per espiare i propri peccati di usura e quelli del genitore. Il libro di Chiara Frugoni capovolge questa tenace interpretazione accolta ancora di recente. Enrico, banchiere, imprenditore e uomo politico, attraverso Giotto volle proclamare il buon uso delle ricchezze, se impiegate in opere caritative, e presentarsi con il volto del mecenate». La studiosa giunge dunque a tratteggiare una biografia nuova e sorprendente di Enrico Scrovegni ponendo abilmente in dialogo le fonti testuali desunte dagli archivi e quelle iconografiche conservate sulle pareti della cappella padovana che egli volle far erigere e decorare senza badare a spese nei primi anni del XIV secolo, coinvolgendo il pittore più famoso del momento. La cappella, dedicata alla Vergine, è stata effettivamente l’affare migliore realizzato dallo Scrovegni. Con quell’investimento egli ha ottenuto al nome del proprio casato una fama che continua a sfidare i secoli, ma soprattutto ha lasciato alla città di Padova e all’intera umanità un patrimonio culturale di significato incomparabile. Fra le fonti testuali considerate dell’autrice emerge in particolare l’importanza del testamento di Enrico, rimasto inedito e pubblicato, tradotto e commentato, in appendice al libro, a cura di Attilio Bartoli Langeli. La parte più interessante del saggio è tuttavia costituita, naturalmente, dell’ermeneutica delle immagini dipinte da Giotto e dai suoi collaboratori sulle pareti della cappella. La Frugoni analizza e interpreta gli affreschi scena per scena mettendo sempre in evidenza sia la fedeltà dei soggetti ai canoni dell’arte e della spiritualità medievale, sia ogni loro tratto di originalità. Gli elementi di originalità andranno sicuramente attribuiti in buona parte al genio di Giotto ma, secondo l’autrice, meritano spesso di essere anche interpretati in funzione della peculiarità del programma iconografico e in particolare del desiderio di Enrico di affermare la possibilità di un uso corretto del denaro a servizio della giustizia e per il benessere della società civile. Così, grazie anche all’apparato iconografico, dettagliato e ben collocato all’interno del testo, che rende ragione della stampa dell’intero saggio su carta patinata, con passione e appassionando, la Frugoni riesce a condurre il lettore alla comprensione unitaria dell’opera. Il ciclo si svolge sulle pareti in una sorta di movimento elicoidale a partire dalle storie dedicate alla vita di Maria, ispirate ai racconti della Leggenda aurea (che segue il vangelo apocrifo dello pseudo-Matteo), per giungere all’impressionante scena del Giudizio finale, sulla controfacciata della cappella, passando per le scene della vita di Cristo, basate sui racconti evangelici. Molti particolari che possono sfuggire a uno sguardo affrettato appaiono rilevanti per la comprensione del significato teologico delle scene, come nel caso di piccoli quadrilobi in cui vengono raffigurate le premesse veterotestamentarie ai misteri della vita di Cristo. Ma la parte più significativa di tutto il ciclo, per comprendere la peculiarità del programma iconografico della cappella, è forse individuabile nella contrapposizione di vizi e virtù (Stultitia-Prudentia, Incostantia-Fortutudo, Ira-Temperantia, Iniustitia-Iusticia, Invidia-Karitas, Desperatio-Spes) che, raffigurati nelle fasce inferiori delle pareti, fra decorazioni di finti marmi (questi ultimi indagati nel loro significato da Riccardo Luisi), concludono il percorso verso il giudizio finale. «Credo – afferma l’autrice – che le due fasce inferiori debbano essere lette come la parte più autobiografica dello Scrovegni, quella in cui egli svela il suo animo, i principî a cui mostra d’informare la sua condotta e che egli ritiene pienamente condivisibili dai concittadini il cui consenso gli sta evidentemente a cuore. Enrico, al tempo degli affreschi di Giotto, è un uomo piuttosto giovane che ha scalato rapidamente il successo, ma questo non impedisce che sia un buon cristiano, così spera che pensino i padovani» (pp. 273-274). In ogni caso, direi che nel capitolo dedicato ai vizi e alle virtù Chiara Frugoni dia il meglio di sé sia nell’analisi che nella sintesi. Il capitolo può risultare, fra l’altro, uno strumento prezioso per valorizzare anche nell’orizzonte della teologia morale, in particolare della morale delle virtù, il dialogo fra ermeneutica teologica ed ermeneutica dell’opera d’arte, più volte auspicato anche sulle pagine di questa rivista. Le raffigurazioni delle virtù cardinali e teologali e dei vizi contrapposti dipinti da Giotto si pongono in effetti in una significativa continuità ma anche in discontinuità con la tradizione teologica e iconografica del proprio tempo. Un loro studio approfondito in ambito teologico morale arricchirebbe sicuramente non solo la ricerca ma anche la didattica che potrebbe ricuperare con frutto il potere comunicativo delle immagini. In questa prospettiva, le belle analisi di Chiara Frugoni, insieme con l’eccellente apparto iconografico, gli utili indici dei nomi e l’ampia bibliografia, possono costituire uno strumento prezioso per il teologo.