di Antonio Lovascio • Una delle peggiori campagne elettorali della storia politica italiana è riuscita perfino a storpiare il senso del pensiero di Papa Francesco sull’accoglienza ai Migranti, strumentalizzandola per trasmettere paura e raccattare qualche voto. Il suo messaggio è più articolato e complesso: certo,parte dall’esigenza di non chiudere le porte ai drammi dei rifugiati, ma c’è pure un dopo, in cui l’integrazione – intesa però come fattore di sviluppo – è il passaggio decisivo e condizione essenziale. Con chiarezza, senza tralasciare le difficoltà che incontrano le nostre Comunità a comprendere le ragioni di chi chiede aiuto, nelle scorse settimane non si è stancato di ripetere che – senza ergere le barriere difensive come vorrebbero i partiti populisti imitando i Governi dell’Est Europeo – va assolutamente preservata l’identità dei Paesi ospitanti. Il rispetto, come giustamente ha fatto notare sul “Corriere della Sera” Andrea Riccardi, fa la differenza fra l’immigrazione e l’invasione.
Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Sono i quattro verbi che Papa Francesco ha suggerito per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018, celebrata domenica 14 gennaio. Quattro movimenti, che incanalandosi in vie molto diverse, proprio in questa creativa ricchezza possono stabilizzare delle “forme” che ci aiutino a vivere umanamente in un mondo che è plurale, al quale forse non eravamo preparati. Quattro processi per essere prima di tutto vivi noi, capaci di rispondere alle sfide; uno stimolo a esser generativi, prima ancora che a risolvere una questione sociale. Non è di politica che si sta parlando, ma di umanità e di vita.
A supporto della predicazione di Papa Francesco, la Fondazione Migrantes ha indicato anche dei “modelli” che agganciano l’intera vicenda migratoria ad alcuni valori chiave e la colloca nell’ambito di una visione complessiva di società, che si basa su tre pilastri portanti – la plurietnicità, la multireligiosità, l’interculturalità – e che si declina assumendo l’interazione come orientamento di fondo. In questo contesto rientra sicuramente l’esperienza fatta in un piccolo paese alle porte di Firenze, San Donnino. A queste tematiche complesse ha cercato di dare una risposta organica concreta, in un’ottica pastorale e sociale, don Giovanni Momigli nel volume “La città plurale”(pp 124, euro 10) pubblicato dalla Tau Editrice, con la prefazione di monsignor Gian Carlo Perego, da pochi mesi arcivescovo di Ferrara-Comacchio e per anni direttore generale dello stesso organismo della CEI. Dossier presentato nel capoluogo toscano proprio in occasione della “Giornata” dall’autore, dal card. Giuseppe Betori, dal sindaco Dario Nardella, dall’Imam Izzedin Ezzin presidente dell’UCOII, da autorevoli esperti come il sociologo Luca Diotallevi ed il docente di filosofia politica Antonio Maria Baggio.
Tutti d’accordo, ovviamente, nel sottolineare che il futuro non si costruisce sulla paura. Allora come possono etnie differenti coabitare in armonia, superando diffidenze e pregiudizi ? Don Momigli (responsabile dell’Ufficio Pastorale Sociale e del lavoro dell’arcidiocesi di Firenze, una militanza nel sindacato prima di entrare in seminario) porta appunto come esempio quello da lui “interpretato” come parroco a San Donino dall’ottobre 1991 al giugno 2016 con la presenza di un intenso e crescente insediamento cinese. Lì ha assunto l’interazione solidale come modalità operativa, riportando la questione della convivenza su un piano di dialogo e di azione volta a superare gli ostacoli e le difficoltà del vivere quotidiano. Creando, per evitare marginalità, “una solidarietà reciproca, che si ottiene puntando su un coinvolgimento nuovo dei cittadini e non sull’assistenzialismo”.
Dalla rielaborazione dell’esperienza fiorentina è possibile trarre spunti per affrontare l’emergenza attuale dei profughi, i fondamentalismi causati dalle sovrastrutture. Le problematiche vecchie e nuove che si propongono in questa fase di mutamento esigono un’ottica globale e una decisa aderenza alle singole situazioni; un risoluto ancoraggio ai valori e una chiara visione di prospettiva. Né mancano nel “dossier” (che quasi certamente avrà un seguito: così almeno ha promesso don Giovanni, rispondendo a chi ha avanzato il dubbio che la sua ricchezza umana non fosse stata ancora interamente raccontata) preziosi suggerimenti per ridare alla politica il senso del progetto, facendole ritrovare una sua dignità e un suo senso forte. Dal principio operativo dell’interazione emerge infatti una specifica visione: sullo stesso territorio la comunità civica deve essere una, pur nella molteplicità delle sue articolazioni o di una pluralità di espressioni identitarie, più o meno organizzate, determinate da particolari legami, come la confessione religiosa o la nazione o città di provenienza, oppure dalla storia di una frazione territoriale, come possono essere borghi, rioni o quartieri. <L’unità civica della città plurale – spiega don Momigli – non è data semplicemente dal fatto che in essa tutti possono trovare un loro spazio. Solo il senso di appartenenza, con il necessario supporto delle leggi, può trasformare un abitante (italiano o straniero) in cittadino e muovere lo sforzo collettivo dello stare e del progettare insieme per scopi comuni>. Ecco, solo così si realizza la “Città plurale”.