Cuba, l’America e il papa. Piccole considerazioni storico-teologiche sulla diplomazia vaticana
di Francesco Vermigli • Sia chiaro che ricostruire le vicende che hanno condotto alcune settimane fa a quella che è stata salutata come la riappacificazione tra i grandi e storici nemici del mondo caraibico – Stati Uniti e Cuba – appare impresa assai ardua. Alla fine se di diplomazia si tratta, è inevitabile che ciò che arriva alla luce del sole sia solo una parte di ciò che è stato messo sul tappeto. Il non detto della diplomazia, ciò che si pone come presupposto su cui è necessario convergano i contendenti e l’eventuale mediatore, è che le ragioni e i modi che hanno condotto all’accordo e talvolta anche i termini dell’avvenuta concordia siano tenuti – almeno negli aspetti più profondi – nel silenzio. La diplomazia vaticana non può sfuggire a questa regola di riservatezza, che sorregge la stessa possibilità di un dialogo tra gli Stati.
Quello che di questa vicenda sappiamo è che – nel periodo del Sinodo straordinario sulla famiglia nello scorso ottobre – rappresentanti cubani e americani si sono incontrati in Oltretevere; che questo ruolo di mediazione riconosciuto alla Santa Sede si deve all’attrazione del mondo per la figura di papa Francesco; che esso in realtà ha radici ben più risalenti nel tempo (la storica visita di Giovanni Paolo II nel 1998 e quella più recente di Benedetto XVI nel 2012); che in quest’opera di mediazione un ruolo presumibilmente decisivo debbono aver svolto il cardinale Segretario di Stato Parolin e il Sostituto alla Segreteria Becciu, per la loro conoscenza del mondo latinoamericano (quest’ultimo, nunzio nella stessa Cuba per due anni); che infine non poco si deve al paziente lavoro del clero cubano, tutto teso ad un’opera di riconciliazione interna tra il regime castrista e i dissidenti. Opinionisti di ogni sorta si sono esercitati nel tentativo di mostrare il carattere “inaudito” di questa concordia e hanno riflettutto su cosa essa possa significare per il futuro del comunismo cubano. Non avendo conoscenze dirette sui fatti, lasciamo ad altri le elucubrazioni geo-politiche; ci accontentiamo di fare alcune brevi considerazioni di natura storica e teologica sulla diplomazia vaticana.
La dottrina sociale della Chiesa – confermata vieppiù da dichiarazioni magisteriali recenti – riconosce agli organismi internazionali la centralità assoluta nella risoluzione dei conflitti tra gli Stati. Non pare, però, casuale il fatto che l’accordo cubano-americano sia stato condotto a termine non solo all’esterno delle aule che accolgono le riunioni dei rappresentanti degli Stati membri delle Nazioni Unite, ma anche al di fuori dei modi di confronto tra gli Stati abituali agli organismi internazionali. L’accordo raggiunto con la “benedizione” della Santa Sede può essere pensato come la vittoria di un modo forse più tradizionale – certamente sottotraccia – della diplomazia. Un modo, forse, in cui anche si possono esprimere al meglio le potenzialità di una diplomazia che assomiglia a tutte le altre, ma il cui elemento dirimente è l’ispirazione cristiana. Lo stesso fatto per cui ci si rivolge ad uno staterello il cui capo manca di divisioni militari (Stalin, do you understand?) in ultima istanza mostra che la pacificazione tra gli Stati, la ricerca persino ostinata di accordo non passa necessariamente attraverso strutture internazionali dalla storia anche rilevante, ma soprattutto mediante modalità diverse sulle quali è opportuno soffermarsi.
È talmente evidente che se la Santa Sede non fosse la Santa Sede, nessuno si rivolgerebbe ad essa alla ricerca di mediazione per la risoluzione dei confilitti. Se la Santa Sede non detenesse quel sovrappiù di credibilità che le deriva dalla stessa ispirazione cristiana, essa non avrebbe alcuno spazio diplomatico. La diplomazia vaticana è credibile perché cristiana, cioè perché tende a riprodurre nei rapporti tra gli Stati il modo che il cristiano è chiamato a realizzare nelle relazioni umane. Principi base della diplomazia more Vaticano sono il rispetto della dignità del singolo, la difesa del povero e dell’indifeso, la promozione sociale… Quando la contesa tra gli Stati o all’interno di essi mette in pericolo tali principi, entra in campo quello che piuttosto che principio chiameremo lo “stile” della diplomazia vaticana. Si tratta di quella tenace capacità tutta cristiana di ricercare con pazienza spazi di riconciliazione e di pace, dove essi non paiono sussistere. Si tratta della creatività credente che cerca soluzioni prima impensabili, vie nuove che sbloccano la situazione e aprono nuovi orizzonti. Si tratta di quel contatto personale con coloro che detengono il potere di far pendere la bilancia dalla parte della riconciliazione. Tutto questo, perché la diplomazia non è una scienza astratta, ma è fatta da uomini e agisce su uomini che possono scegliere in favore del bene comune. Nella ricerca paziente di nuovi equilibri e forme di convivenza tra gli Stati, alla diplomazia vaticana spetta un ruolo non piccolo nella lenta costruzione del Regno di Dio.