La cucina del Risorto. Gesù cuoco per l’umanità affamata di Giovanni Cesare Pagazzi
di Dario Chiapetti • Tutto ciò che è veramente umano trova nel mistero del Verbo incarnato lo spazio in cui poter essere e poter esprimersi. Non solo. Tutto ciò che è veramente umano trova nel mistero del Verbo incarnato lo spazio in cui poter trovare quella luce rivelatrice che lo svela a se stesso nella sua natura. Tutto ciò che è veramente umano deve essere perciò attentamente osservato, considerato e solo al mistero del Verbo incarnato occorre rivolgersi per captare quegli elementi di verità che lo illuminano.
Il testo del teologo lombardo Giovanni Cesare Pagazzi: La cucina del Risorto. Gesù cuoco per l’umanità affamata (Emi, 2014, Bologna) presenta in modo originale l’aspetto, forse non troppo considerato dalla cristologia, dell’abilità di Gesù ‘ai fornelli’, del suo cucinare, in ordine al suo essere Dio, e quindi del significato teo-antropologico che riveste il cucinare, soprattutto per gli altri.
Gesù si presenta – argomenta l’Autore – come una persona che ha e vive un rapporto con il cibo e la tavola: la convivialità è uno dei suo tratti peculiari; mangia, mostrando estrema solidarietà con l’uomo, sia la carne che il pesce (contrariamente al Battista); ringrazia per il dono del cibo; presenta il Paradiso stesso attraverso l’immagine della mensa; fino ad arrivare a rivelare che egli è Signore del pane, anzi fino a identificarsi col pane. L’attenzione del Signore per la fame e sete – secondo Pagazzi – ricorda agli uomini che sono esseri-dipendenti-da-altro (che ricevono prima di dare); che non sono gli unici ad essere al mondo (c’è anche il cibo); che la loro vita proviene da fuori-di-loro ed è diversa-da-loro (è pertanto qualcosa di trascendente); che c’è un gusto e una bontà che non si esaurisce in loro.
Questo significato antropologicamente positivo del cibo, fondato sulla positività della creazione (cf. Gen 1,31; Sap 1,14), si traduce in Gesù nell’assenza di tabù nei suoi confronti (caso unico nella storia delle religioni), in quanto mostra la familiarità, “la consustanzialità”, tra ‘corpo’ e ‘mondo’, concorre “alla purezza dell’uomo”. Secondo la teologia della creazione, Adamo e la terra costituiscono un binomio indissolubile, segno dell’amore, dell’opera e dell’alleanza di Dio, fino al punto che la carne viene completamente assunta dal Figlio per volere del Padre, per mezzo dello Spirito.
Con l’assunzione della carne da parte di Dio si assiste al rinvenimento di tale rapporto positivo tra Adamo e la terra, sul piano morale e soprattutto su quello ontologico. Gesù siede a tavola con commensali, nutre gli affamati e soprattutto si mostra “intenditore del processo di produzione e approvvigionamento delle materie prime degli alimenti” (cf. Mt 13,47-50; Lc 15,4-7); ciò presuppone l’umana capacità di ad-domesticare; il desiderio – riflette l’Autore – di rendere di ‘casa’ animali e piante: non è forse quest’unica casa per tutti il contenuto del disegno di Dio (cf. Sal 104; Mc 12,10-11)? Il gesto cristologico di cucinare dice ancora all’antropologia che tale ‘arte’ presuppone la presenza e la custodia di una memoria del passato (“a cucinare s’impara per imitazione e pratica […] chissà per quanti anni il Figlio di Dio avrà visto Maria con le ‘mani in pasta’”), di un’inventiva e di una creatività, attitudini che forse non mancavano al Creatore; che all’uomo non basta ‘alimentarsi’ (il cucinare e il mangiare rispondono all’esigenza di piacere e com-piacere), ma che è fatto per godere della carne e nella carne, la quale trova in ciò la sua massima dignità; che l’uomo è un essere che ‘si fida’ (degli ingredienti, di riuscire a soddisfare, etc.) e che è capace di ‘rispetto’ (di modalità di cottura, arnesi, etc.). La riflessione di Pagazzi si approfondisce tematicamente spostando l’attenzione sull’aspetto dei ‘rifiuti’: essi sono curiosamente presentati come ciò di cui l’uomo non può sbarazzarsi frettolosamente, pena la perdita di elementi teologicamente e antropologicamente rilevanti: essi hanno la funzione di mostrare il destino di ogni cosa, che la vita presenta per sua natura un aspetto di ‘sporcizia’ e, infine, che “c’è sempre qualcosa di sacrificale a garantire la mia vita e ciò non può esimermi dalla riconoscenza”.
Se “pastore” significa “colui che dà il pasto”, vescovi e preti – per Pagazzi – devono essere veri ‘cuochi’. A volte le pratiche cristiane non sembrano avere le attenzioni della cucina: occorre saper ‘rinunciare’ (non si può offrire sempre tutto a tutti); saper prestare attenzione alla graduale progressione (e regressione) della capacità digestiva; saper pensare pasti sia sostanziosi che sobri; non far mancare sapori noti e apprezzati ma neanche nuovi, educando il palato lentamente. Infine, per evitare pastoni in cui i sapori si perdono, occorre saper ‘decidere’ (cioè ‘separare’) e ‘amalgamare’ (‘tenere insieme’, ingredienti anche contrastanti).
“Pensiamo a come Gesù avrà cucinato il pesce pensando a Pietro e compagni”. Non sappiamo, certo li amava di un amore eterno.