di Stefano Tarocchi • «La verità fondamentale per la quale sono stati scritti i Vangeli – Gesù è il figlio di Dio – non venne proclamata da Gesù morente o dai suoi discepoli o dalle donne di Galilea o da un ebreo convertito. Venne proclamata da uno straniero, che apparteneva al popolo dei persecutori, e certo guardava con ironia o indifferenza alle risse religiose di Israele: lo strano popolo che credeva (parola che egli non capiva) in un solo Dio, e non in una moltitudine colorata di dei» (I Vangeli, 140). Le parole che Pietro Citati scrive, riferendosi alla professione di fede del centurione romano alla morte di Gesù, alla fine del capitolo diciotto, terzultimo dei venti che compongono quest’agile volume (pubblicato da Mondadori nella collana “i Saggi”, Milano 2014), possono servire da emblema di questo percorso con cui affronta con maestria la figura di Gesù a partire dai quattro libretti che conosciamo come Vangeli, poi entrati nel canone del Nuovo Testamento. La bibliografia essenziale, che fa riferimento a testi tradotti e pubblicati in Italia dall’editrice Paideia, con i commentari di Gnilka, Pesch, Schürmann, Bovon, Schnackenburg, divenuti ormai classici, testimonia che l’intenzione di Citati è più che seria.
Ma perché un critico letterario di prim’ordine si confronta con un tema così particolare? Oggi abbiamo il dono di vivere in un tempo in cui le parole di Francesco, il papa di Roma, ridanno freschezza all’opera dell’evangelizzazione, sciogliendola dall’ingessatura in cui anche uomini di chiesa, inavvertitamente, talora condannano, sembra quasi scontato. Quando un comico, citato peraltro dallo stesso Francesco, si cimenta con le Dieci Parole in diretta televisiva e riesce a dire cose che bucano lo schermo, allora c’è spazio anche per un critico letterario che spiega ad esempio il Padre Nostro con la capacità degli esegeti di professione, quando Gesù lo insegna, e – lo richiama Citati molto sottilmente –, nel momento in cui offre al Padre la sua volontà avanti la passione.
Credo che Citati si sia liberato di quel paludato sussiego che impedisce al Libro ispirato, sacro a cristiani ed ebrei, di diventare parte integrante della cultura scolastica ed accademica, coerentemente alla noia sottile con cui i cristiani praticanti o meno guardano alla loro fede. Non desta perciò meraviglia il successo che ebbe anni fa il mediocre volume di Dan Brown, basato sull’apocrifo Vangelo di Giuda (fine II secolo), ma anche l’influsso che questo tipo di letteratura riesce a produrre ancora in un certo numero di credenti e nell’immaginario collettivo.
La passione per tali scritti, raccolti sotto il nome collettivo di Vangeli apocrifi, ma che in realtà tradiscono interessi enormemente differenti, fino alla letteratura che riduce la fede a conoscenza – i Vangeli gnostici –, a mio avviso, evita la fatica di riprendere in mano quella letteratura neotestamentaria, che appartiene interamente al I secolo, scritta e trasmessa da un numero enorme di testimoni antichi, in un greco che ad una lettura superficiale appare banale ai cultori di lettere e tradizioni classiche – che Citati ben conosce e utilizza – e non è intaccata nel suo valore perfino da traduzioni fortemente penalizzanti quanto più vogliono essere attuali.
Non è primariamente in gioco la fede, che altro non è che la risposta dell’uomo al Dio che si è rivelato in Cristo, ma la sua plausibilità, la sua comunicazione, che la rende codice per interpretare letteratura ed arte, paesaggio esterno ed interno all’uomo, architettura sacra e non solo, e vita vissuta.
Ad essere in gioco è colui che, per un credente, è al centro della fede della comunità cristiana; qualcuno al quale necessariamente bisogna guardare, per le sue parole e per le sue azioni, come colui che «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38), pena la riduzione dell’esistenza umana ad un percorso senza senso alcuno.
Citati rimette in gioco questo percorso, rivolgendosi potremmo dire, a coloro che un saggio di Pierre Riches di qualche anno fa, uscito in italiano da Mondadori nel 1977, fa chiamava gli “ignoranti colti”. Essi forse non sono come scrive Paolo ai cristiani di Efeso, parlando della loro condizione avanti la fede: «in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo.» (Ef 2,12). Sono ignoranti, diremmo noi, non importa se consapevoli o inconsapevoli, e tuttavia felici in questa condizione.