Terremoti: due ragioni per non mettere di mezzo Dio
di Gianni Cioli • Di recente un lettore del settimanale Toscana oggi ha posto la questione se sia possibile interpretare i terremoti come punizioni di Dio. Su invito del Direttore de Il mantello della giustizia ripropongo qui, con qualche modifica, la risposta, elaborata per altro di getto, in maniera quasi intuitiva, senza ricerche e particolari riflessioni a monte.
Certamente certe letture delle calamità naturali (terremoti, alluvioni, pestilenze, carestie) e delle tragedie provocate da scelte umane (guerre, genocidi, dissesti economici) come messaggi puntuali o specifiche punizioni di Dio non sono mancate e hanno potuto trovare fondamento in una lettura fondamentalista dei passi apocalittici dell’Antico ma anche del Nuovo testamento. Sono tuttavia convinto che sia inopportuno riprendere oggi senza alcuna mediazione critica questi modelli interpretativi almeno per due ragioni.
Certo, uno mi potrebbe obiettare che Dio si serve delle «cause seconde», ovvero degli eventi naturali per i suoi disegni… ma qui entra in gioco la seconda buona ragione per non mettere di mezzo di Dio.
Sono convinto, confortato anche da autorevoli studi esegetici, che i passi apocalittici presenti nella Scrittura andrebbero interpretati essenzialmente come messaggi di consolazione ai credenti per i tempi di crisi. In effetti la lettura e la meditazione dei testi apocalittici – come ad esempio Lc 21,5-19 – può essere davvero un aiuto prezioso per affrontare anche la crisi di oggi e, davvero, non dovrebbe diventare il pretesto per diffondere terrore.
Tutto questo ci conduce a misurarci con il mistero della morte, perché alla fine è quello il problema serio dell’esistenza cristiana e umana.
Il discorso ci porterebbe lontano. Per esempio ci condurrebbe a dover considerare la spinosa questione della relazione della morte con il peccato, con specifico riferimento al peccato originale. Non avendo lo spazio per affrontare una smile questione in questa sede mi limito a citare la voce di un autorevole teologo domenicano scomparso da qualche anno. Spero che il suo pensiero possa risultare almeno in parte illuminante: «Se è innegabile che l’evento della morte […] è una necessità di natura, è non di meno evidente, di un’evidenza intuitiva, che la morte […] non sarebbe quello che è senza la ferita della libertà umana e l’incoerenza fondamentale del peccato. Essa esisterebbe ma diversamente. La Morte non sarebbe quello che di fatto è diventata a causa della colpa dell’uomo: la finitezza della creazione, che implica l’evento della morte, avrebbe potuto non entrate nella nefasta alleanza con il peccato» (J.-M.R. Tillard, La morte enigma o mistero?, Magnano (Biella) 1998, 141).