di Gianni Cioli • Di recente un lettore del settimanale Toscana oggi ha posto la questione se sia possibile interpretare i terremoti come punizioni di Dio. Su invito del Direttore de Il mantello della giustizia ripropongo qui, con qualche modifica, la risposta, elaborata per altro di getto, in maniera quasi intuitiva, senza ricerche e particolari riflessioni a monte.
Certamente certe letture delle calamità naturali (terremoti, alluvioni, pestilenze, carestie) e delle tragedie provocate da scelte umane (guerre, genocidi, dissesti economici) come messaggi puntuali o specifiche punizioni di Dio non sono mancate e hanno potuto trovare fondamento in una lettura fondamentalista dei passi apocalittici dell’Antico ma anche del Nuovo testamento. Sono tuttavia convinto che sia inopportuno riprendere oggi senza alcuna mediazione critica questi modelli interpretativi almeno per due ragioni.
La prima è che il progresso delle scienze empiriche ci ha messo in grado di conoscere che molti eventi disastrosi come terremoti, eruzioni vulcaniche e uragani sono fenomeni evidentemente legati alle leggi della natura; altre calamità, come guerre, povertà e crisi economiche (e non dimentichiamo l’attuale tragedia dei richiedenti rifugio) o, come pensa qualcuno, anche certi disastri climatici, possono essere invece ricollegabili in varia misura a scelte umane più o meno colpevoli. Che il terremoto o un eruzione vulcanica siano da interpretare in se stessi come eventi naturali e non come effetti del peccato dell’uomo è testimoniato dal fatto che questi fenomeni erano presenti sul nostro pianeta prima della comparsa dell’uomo, e quindi del peccato, come è documentato dalla paleontologia. Inoltre è noto che esistono zone ad alto rischio simico, come Italia Grecia e Turchia, e zone in cui il rischio è praticamente assente come il Nord Europa. I terremoti dipendono dalla conformazione della terra, attribuirli ad un diretto intervento di Dio, magari dovuto ad una sua motivata reazione di ira nei confronti degli uomini poteva apparire una spiegazione ipotizzabile all’interno di una concezione cosmologica prescientifica.
Certo, uno mi potrebbe obiettare che Dio si serve delle «cause seconde», ovvero degli eventi naturali per i suoi disegni… ma qui entra in gioco la seconda buona ragione per non mettere di mezzo di Dio.
La seconda ragione riguarda l’immagine di Dio presupposta dall’interpretazione di questi eventi come puntuali segni o punizioni. L’immagine da cui si deve partire per comprendere chi è Dio e che illustra la sua perfezione è a mio avviso quella di Mt 5,43-48 dove Gesù dice «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». È a partire da questa immagine del Padre che non si adira con gli ingiusti, ma li ama non ostante tutto e dona loro la pioggia (che nella Palestina del tempo di Gesù era essenzialmente un’immagine di benedizione) che si dovrebbero interpretare anche i passi apocalittici presenti nei Vangeli e soprattutto nell’ultimo libro della Bibbia.
Sono convinto, confortato anche da autorevoli studi esegetici, che i passi apocalittici presenti nella Scrittura andrebbero interpretati essenzialmente come messaggi di consolazione ai credenti per i tempi di crisi. In effetti la lettura e la meditazione dei testi apocalittici – come ad esempio Lc 21,5-19 – può essere davvero un aiuto prezioso per affrontare anche la crisi di oggi e, davvero, non dovrebbe diventare il pretesto per diffondere terrore.
In questa prospettiva si può recuperare anche il significato profondo e autentico dell’idea che ciò che accade nella storia può essere interpretato come un messaggio di Dio. Ma non nel senso che Dio ce lo mandi come puntuale punizione o specifico avvertimento, ma nel senso più profondo che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28) e che, se contemplo con sguardo di fede le cose belle e non belle o anche terribili che accadono, posso giungere a comprendere nell’esperienza della fragilità il significato della vita affidandomi a Dio, trasfigurando così la crisi in opportunità; opportunità di amare donandomi sull’esempio di Gesù.
Tutto questo ci conduce a misurarci con il mistero della morte, perché alla fine è quello il problema serio dell’esistenza cristiana e umana.
Il discorso ci porterebbe lontano. Per esempio ci condurrebbe a dover considerare la spinosa questione della relazione della morte con il peccato, con specifico riferimento al peccato originale. Non avendo lo spazio per affrontare una smile questione in questa sede mi limito a citare la voce di un autorevole teologo domenicano scomparso da qualche anno. Spero che il suo pensiero possa risultare almeno in parte illuminante: «Se è innegabile che l’evento della morte […] è una necessità di natura, è non di meno evidente, di un’evidenza intuitiva, che la morte […] non sarebbe quello che è senza la ferita della libertà umana e l’incoerenza fondamentale del peccato. Essa esisterebbe ma diversamente. La Morte non sarebbe quello che di fatto è diventata a causa della colpa dell’uomo: la finitezza della creazione, che implica l’evento della morte, avrebbe potuto non entrate nella nefasta alleanza con il peccato» (J.-M.R. Tillard, La morte enigma o mistero?, Magnano (Biella) 1998, 141).