Pudicizia a tutta prova. Il giovane Giuseppe, perfetto stoico e pio israelita (4 Maccabei 1,35-2,6), e fidente fratello

496 355 Carlo Nardi
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orazio_gentileschi_014_giuseppe_con_moglie_putifarre_1626di Carlo Nardi (1,25) Le passioni causate dagli appetiti sono eliminate quando l’intelletto colmo di sapienza le sbaraglia e i sobbalzi del corpo sono imbrigliati dagli effetti del ragionamento.
(2,1) Che c’è di strano se i desideri concepiti dall’anima sono annullati per la contiguità con partecipazione alla bellezza dei valori? (2,2) È così che si apprezza il saggio Giuseppe perché col ragionamento bloccò la passione che anelava al piacere. (2,3) Difatti, pur giovane qual era e pronto al massimo per il coito, col ragionamento annullò la fregola suscitata dalle passioni. (2,4) E, come si vede, il ragionamento domina non solo la frenesia della passione che anela al piacere, ma anche di qualsiasi altro desiderio.
(2,5) Dice allora la Legge: «Non desidererai la donna del tuo vicino e non desidererai alcunché del tuo vicino (Es 20,17)». (2,6) E dal momento che la Legge ci ha detto di «non desiderare» (cf. Es 20,17), tanto più vi potrei convincere che il ragionamento è in grado di dominare i desideri.

Così a proposito del patriarca Giuseppe, ancora poco più che ragazzo, secondo il Quarto libro dei Maccabei, scritto nel giudaismo non solo dopo la persecuzione di Antioco IV Epifane (+ 164) ma anche dopo il Primo e Secondo libro dei Maccabei, i solo assunti dalla Chiesa cattolica nel canone dei libri ispirati. Eppure anche il Quarto, come del resto il Terzo, si leggono come in una scansia nelle bibbie greche dei Settanta e nella Vulgata latina, il che è segno di devota riverenza cristiana per questi due libri giudaici.

D’altra parte nel primo capitolo si rammentano nei suddetti libri canonici il santo vecchio Eleazaro ed eroici figli che con la loro madre sono martiri della fede per il Dio dei padri, decisi a non cedere a “dei falsi e bugiardi” (Dante e già sant’Agostino) dell’accattivante mitologia greca, come Zeus col suo innumerevole Olimpo, spesso e volentieri godereccio e crudele.

Ora, l’anonimo pio israelita parla di fortezza capace di vincere il vortice sia del dolore che del piacere. A questo proposito si avvale di termini tratti dalla filosofia greca – tra cui i dotti “appetiti” con cui traduco il greco hérexis, il contrario di “anoressia” –, filosofia socratica e in particolare stoica. Ricordo il motivo paradossale del saggio felice anche nei tormenti, usato anche dai cristiani per celebrare i martiri per la loro coerenza; ma anche un giovane che, tentato di lussuria, nella pienezza dei suoi “bollenti spiriti” e sul punto di andare in brodo di giuggiole rifiuta l’impudicizia con tutta la forza della sua volontà: come il casto Ippolito tentato dall’insistente Fedra, come il fedele Giuseppe circuito dalla vogliosa moglie di Putifar senza che la faccenda finisse in putiferio.

Nel brano non c’è solo la filosofia – e, implicitamente, tanta gustosa nonché edificante letteratura – che conduce alla libertà e alla conseguente responsabilità. Alla fine, c’è anche un tratto di teologia deduttiva. Vi si parla della Legge data al popolo tramite Mosè nei dieci comandamenti. Dopo di che ravviso un ragionamento di questo tipo: se, nella fattispecie, Dio proibisce il lasciarsi andare a quel che mi pare e piace fino all’adulterio, è segno che l’uomo è capace di attuare la volontà di Dio, per quanto gli è dato, senza entrare nelle oceaniche questioni tra grazia e libero arbitrio, perché … ho già finito la carta.

E Giuseppe, filosofo nella mente, nel volere e nel corpo, è anche teologo, perché anticipa il decalogo che per volontà di Dio promulgherà Mosè. Il patriarca ragazzo dell’ultimo libro dei Maccabei sa dir di no a quel che sa di pagano, e sa dir di sì a tutto che quello che l’antichità pagana ha seppur intravisto di vero, di buono e di bello. Il fragile Giuseppe c’insegna la fortezza e fraternamente incoraggia.

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