Il realismo di San Benedetto.
di Benedetto, quello che è accaduto innanzitutto in lui. Ad appena cinquant’anni dalla morte del nostro santo, Gregorio Magno suggeriva: «[…]se qualcuno vuol conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nell’insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest’uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento, senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita» (Dialoghi II, 36). La Regola, oggi com ellora, rimane il riferimento essenziale attraverso cui poter cogliere il proprium del carisma e dell’esperienza di Benedetto. Esperienza giudicata, compresa fino a divenire una proposta ed una provocazione per altri. La Regola non fu concepita come un piano per riedificare l’Europa, e nemmeno per imporsi a tutto il monachesimo occidentale (avvenne solo in epoca carolingia). Intrisa di quanto Benedetto aveva appreso vivendo e seguendo i fatti, la Regola aveva come unico intento quello di obbedire alle concrete esortazioni di Dio: «il Signore aspetta ogni giorno, senza stancarsi, che noi corrispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni» (dal Prologo alla Regola). Benedetto era un realista e, se proprio vogliamo parlare di genialità, dovremmo parlarne nei termini di una fedeltà permanente al reale, alle circostanze ed alla storia come luogo eloquente della presenza di Dio: «Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti» (Benedetto XVI, Udienza generale, 9 aprile 2008). È questa consapevolezza realista il più interessante e decisivo dei tratti da cogliere nella vita di Benedetto. «Tutta la Regola porta l’impronta di uno spirito che non costruisce a priori, secondo un ideale astratto e un piano rigido, ma vede la realtà com’è e cerca di adattarvisi, traendone il frutto migliore. Benedetto non intende imporre una regola di perfezione: il suo (egli dice) vuol essere un semplice principio di vita religiosa» (L. Salvatorelli, San Benedetto e l’Italia del suo tempo, 2007, 110) o, come scrive, “minima, tracciata solo per l’inizio” (Regola,73,8). Benedetto non aveva il problema di formare una sorta di élite; coloro che lo seguirono desideravano semplicemente vivere con fedeltà, in comunione, il contenuto originario del Vangelo: «La via della salvezza: ecco quello che vuol essere la Regola. Non un cristianesimo particolare e d’eccezione sovrapposto al cristianesimo comune; ma un adempimento dei precetti evangelici […]» (L. Salvatorelli, 112). Egli comprese così che il punto decisivo non era ostinarsi su formule di perfezione ascetica, le quali rischiavano di tradursi in sforzi personali all’insegna di traguardi autoprefissati; un rischio che lui stesso dovette superare. Occorreva, piuttosto, riproporre la semplicità dell’annuncio evangelico quale strada relamente percorribile per tutti: «Questa moderazione in fatto di ascetismo è così spiccata […] che essa appare come […] una rivoluzione, perfettamente cosciente e volontaria» (L. Salvatorelli, 118). L’ascetismo rischiava infatti di schiacciare le persone in quello scarto tra le proprie forze e un’ideale ridotto a perfezionismo spirituale. «Tale discordanza fra la teoria e la pratica deve aver fatto riflettere Benedetto, fin da quando aveva tenuto la carica di abate in quel monastero presso Subiaco […] deve aver cominciato allora a pensare se, a voler fare degli uomini troppo buoni, non si rischi di farli divenire più malvagi che mai» (L. Salvatorelli, 119). In un momento storico, il nostro, in cui da molte parti si pretende di continuare a far fronte ai nuovi e mutati problemi semplicemente ripetendo quanto già detto, fino all’irrigidimento, stupisce ed illumina l’audacia di Benedetto. Come sottolinea Léo Moulin: «Non c’è per così dire pagina della regola dove non appare la coscienza che il patriarca ha della debolezza intrinseca dell’uomo e della sua vulnerabilità» (La vita quotidiana secondo San Benedetto, 1980, 84). All’origine della grande fioritura benedettina non troviamo una riedizione aggiornta dell’ascetismo orientale, quanto la lucida consapevolezza della fragilità dell’uomo e del suo autentico bisogno. Così la Regola impegna l’abate: «In tutte le cose proceda con discernimento ed equilibrio, ricordandosi della moderazione di Giacobbe che diceva: “Se affaticherò troppo le mie pecore, moriranno tutte in un solo giorno”. […] regoli ogni cosa in modo che i forti desiderino fare di più e i deboli non si scoraggino» (Regola 64,73). La Regola, così conciliante in tanti punti, non era il fine di quella vita comune, costituì fin da subito un mezzo, scelto ed abbracciato per camminare assieme verso il compimento della vita: «non era loro intenzione di creare una cultura […]. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio […] e lasciarsi trovare da Lui». (Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, 12 settembre 2008). La coscienza che il nostro santo manifesta circa le fragilità umane ci ricorda quanto non si stanca di ripetere Papa Francesco: «il nostro peccato è luogo privilegiato dell’incontro con Cristo». Per Benedetto la regola non non era una “soluzione” alla fragilità dei suoi compagni, essa doveva introdurre in una intensità di vita — dal lavoro, alla preghiera — che risvegliasse incessantemente il bisogno di un Dio che “si scomoda” per l’uomo, un Dio da poter incontrare e riconoscere nella concretezza della vita stessa. È in questo lasciarsi trovare da Cristo che il monaco può sperimentare l’autentica liberazione: «Grazie a questo amore, tutto ciò che prima osservava con paura, incomincerà a compierlo con naturalezza, […], non più per paura dell’inferno, ma per amore di Cristo e per il gusto del bene» (Regola 7, 68-69).