di Gianni Cioli • Nella Miserdicordiae vultus al n. 2 Francesco afferma che “misericordia” «è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità». Al n. 8 il papa riprende e sviluppa l’idea sottolineando che «con lo sguardo fisso su Gesù e il suo volto misericordioso possiamo cogliere l’amore della SS. Trinità». Come ci insegna la Prima lettera di Giovanni, «Dio è amore» (1Gv 4,8.16), perciò il compimento della rivelazione consiste nella piena manifestazione e comunicazione dell’amore. «La missione che Gesù ha ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza». L’amore che costituisce il vero volto di Dio si è «reso visibile e tangibile in tutta la vita di Gesù». Ma l’amore, che è l’essenza stessa della vita trinitaria, quando si manifesta e si dona alla creatura umana in una storia di peccato e di miseria assume necessariamente il volto della misericordia. Amare l’umanità nelle donne e negli uomini concreti, peccatori e sofferenti, significa provare sentimenti misericordiosi che si traducono in opere di misericordia. La persona di Gesù, sottolinea dunque il papa, «non è altro che amore, un amore che si dona gratuitamente. Le sue relazioni con le persone che lo accostano manifestano qualcosa di unico e di irripetibile. I segni che compie, soprattutto nei confronti dei peccatori, delle persone povere, escluse, malate e sofferenti, sono all’insegna della misericordia. Tutto in Lui parla di misericordia. Nulla in Lui è privo di compassione».
Sviluppando le premesse poste dal papa possiamo dire che il termine “misericordia”, se non sembra, almeno a prima vista, il vocabolo più adeguato per definire l’amore nelle relazioni fra le persone divine, risulta con ogni probabilità quello più idoneo a descrivere l’agire concreto di Dio verso di noi.
Parlare di misericordia nella vita immanente della Trinità, nella relazione fra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, può apparire in effetti incongruo perché un atteggiamento d’amore misericordioso presuppone una condizione di miseria in chi è oggetto di tale amore, ma una condizione di miseria non sembra di per sé attribuibile a una persona divina.
Il termine “misericordia” pare invece perfettamente congruo per esprimere l’agire amoroso di Dio verso di noi nel farsi «carne» del Figlio (Gv 1,14) e nel suo dare la propria «carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). L’interpretazione patristica della parabola del buon samaritano, e la sua traduzione in immagine già nell’iconografia del primo millennio (cf. Il Codice purpureo di Rossano del VI secolo), colgono bene questa idea: il Samaritano è lo stesso Gesù che si fa prossimo, che si piega sull’umanità ferita e sofferente per salvarla dalla morte.
Oggetto della misericordia di Dio è «dunque la vita del mondo» e la vita di ogni essere umano nella sua concreta povertà. Questo amore misericordioso, pur essendo un carattere distintivo di Dio già nella rivelazione veterotestamentaria, si è manifestato e donato con pienezza inaudita nella carne di Cristo che rivela il volto del Padre.
Proprio contemplando il mistero di Dio a partire dalla carne del Figlio si può tuttavia giungere a interpretare anche la relazione fra le persone della Trinità nell’ottica della misericordia. L’amore che lega il Padre e il Figlio – divenuto misericordia uscendo, per così dire, dalla pericoresi trinitaria e riversandosi sulla creatura – ritorna nelle relazioni fra le persone divine con il carattere della misericordia; e perviene così a illuminare ulteriormente il mistero della vita trinitaria. Facendosi carne, infatti, il Figlio ha assunto la nostra miseria; consegnandosi nella passione, ha preso su di sé il nostro peccato e tutto il nostro dolore. «Ecce homo» (Gv 19,5), fa dire il Vangelo di Giovanni a Pilato mentre mostra Gesù sfigurato e sofferente che sta per essere consegnato ai carnefici.
Egli è divenuto così oggetto della misericordia del Padre che «lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte» (At 2,24).
Riconoscere che nella chenosi pasquale il Signore Gesù si è fatto carico di ogni miseria umana ci può permettere di considerare le opere di misericordia corporale e spirituale – sulle quali il papa invita la chiesa a una rinnovata riflessione – non come semplici imperativi etici, ma come vie per entrare e rimanere (cf. Gv 15,9) nel cerchio dell’amore trinitario.
In Cristo Dio si è fatto nostro prossimo per usarci misericordia; a questo amore possiamo corrispondere facendoci prossimi di Cristo tutte le volte che usiamo misericordia verso chi patisce una qualche situazione di miseria, anche e soprattutto quella dovuta al peccato. Nel Vangelo di Matteo Gesù afferma infatti: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Oserei dire che ogni qualvolta noi contribuiamo a risollevare un fratello dalla miseria, sia che si tratti di una situazione di indigenza, o di prostrazione morale, o di degrado umano dovuto alla colpevolezza, sia che lo facciamo attraverso l’aiuto materiale, o con la presenza e le parole, o col perdono, diveniamo in qualche modo partecipi dell’atto divino del Padre che ha amato il Figlio e lo ha risuscitato liberandolo dalla morte. «Siate misericordiosi», ci ha detto in effetti Gesù, «come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).