Un libro di Emanuele Pili, “Il taedium tra relazione e non-senso. Cristo crocifisso in Tommaso d’Aquino”
di Alessandro Clemenzia • Il fatto che alcuni autori, colonne della tradizione culturale, filosofica e teologica, dell’occidente, sui quali è stato scritto una fiumana di articoli, saggi e tesi, non passino mai di moda, può essere indice di un duplice motivo: da un lato, della profondità mai totalmente esplorata di questi pensatori, per cui unicamente lungo i secoli si scopre la molteplicità argomentativa dei loro scritti (componente oggettiva); dall’altro, di come l’orizzonte all’interno del quale si colloca il ricercatore che vuole investigare questi autori offra una nuova prospettiva e, dunque, una nuova luce sul già conosciuto; il luogo in cui ci si pone per investigare, infatti, non è secondario al risultato dell’osservazione (componente soggettiva).
Si aggiunga a questo un altro elemento: l’autore in questione, Tommaso d’Aquino, è stato così ampliamente e lungamente scrutato nella storia del pensiero che la sua interpretazione ha finito per sostituirsi alla fonte originaria, arrivando addirittura a imporsi su questa; la grande tentazione di ogni epoca, infatti, è stata quella di leggere Tommaso soprattutto per come è stato interpretato.
È proprio in riferimento alla duplice componente soggettiva e oggettiva che si può introdurre l’originale contributo del saggio di Emanuele Pili, Il taedium tra relazione e non-senso. Cristo crocifisso in Tommaso d’Aquino.
Più che ripercorrere i contenuti fondamentali che hanno ritmato i capitoli del testo (anche se resta da notare – ad esempio – come l’Autore mostri che Tommaso privilegia, in riferimento al Crocifisso, il linguaggio della fruitio rispetto a quello della visio), è meglio indirizzare l’attenzione direttamente sul significato che Pili ha fatto emergere del taedium nella visione tomasiana, per cogliere come esso vada a intaccare la riflessione filosofica e teologica odierna.
Attraverso una ricostruzione del contesto remoto del significato di taedium (nel primo capitolo), l’Autore sottolinea l’ampio campo semantico del termine, inteso sia come atteggiamento fisico (ad esempio, la stanchezza) sia come atteggiamento interiore, quale l’angoscia, la disperazione, una sorta di «nausea esistenziale» (p. 79). Nel contesto pagano viene data voce a Lucrezio che, nel De rerum natura, parla del taedium come di una realtà di cui il malato non riesce ad afferrare la causa («causam non tenet»), esprimendo con questo non solo il sintomo del male, ma anche una ricerca insoddisfatta e incompiuta del perché (cf. p. 80-2). Nel contesto cristiano è Bonaventura a offrire un’ulteriore indicazione: il taedium, sottolinea Pili, è qui identificato come «mancanza di relazioni creative e feconde […] e, contemporaneamente, come spinta verso la drammatica chiusura interiore: indica l’abissale esperienza del non-senso, l’assenza del “perché” alla propria esistenza» (p. 93).
Nella sua applicazione cristologica, come sottolinea il sottotitolo del libro preso in esame, già la Scrittura offre una chiara esplicazione del significato di taedium, attraverso un passo decisivo tratto dal Vangelo di Marco: «E prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni e cominciò a sgomentarsi e ad angosciarsi» (Mc 14,33). Girolamo ha tradotto il verbo greco ademoneo (essere angosciato) con taedere.
Tommaso recupera questo lemma per descrivere il male sofferto da Cristo, trasponendolo dal Getsemani all’evento della crocefissione, e sottolineando in particolare il dolore interiore, più che fisico, causato dall’assunzione dei peccati del genere umano, dalla partecipazione al peccato dei Giudei e di quanti contribuivano alla sua morte, dalla paura per l’imminente perdita della vita (cf. STh III, q. 46, a. 6 co.). Da rilevare, inoltre, che, mentre il dramma del dolore fisico non è mai stato messo in dubbio nella storia del pensiero, quello relativo all’anima ha creato maggiori difficoltà per il suo riconoscimento.
Il dolore di Cristo nel momento dell’abbandono è stato descritto attraverso tre componenti: la tristitia, un moto interiore che ha per oggetto un male presente; il timor, che ha come causa un male futuro, in cui comunque rimane una prospettiva di speranza, altrimenti sarebbe solo tristitia; e il taedium, come perdita di senso e sete di relazione (cf. pp. 286- 291), sperimentata da Cristo di fronte all’inevitabilità della sua morte.
Ciò che maggiormente colpisce è come Tommaso, sfruttato spesso per ribadire una certa apatia di Cristo davanti alla sofferenza, non si spaventi di applicare questo vocabolo così pieno di significato al Verbo incarnato.
Questa lettura cristologica offre a Emanuele Pili le basi per una comprensione dell’esistenza anche dal punto di vista antropologico: «l’Aquinate “approfitta” del testo biblico per mostrare la più intima vocazione dell’uomo: la propria identità, la propria realizzazione e la personale conoscenza di sé non possono essere definite in assenza del Tu di un Altro. Per questo motivo anche i giusti, in mancanza di questa fondamentale relazione, sono condannati al taedium» (p. 290).