“Il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo” (Lc 16,22). Annotazioni sul capitolo 16 del Vangelo di Luca

200 225 Gianni Cioli
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image_previewdi Gianni Cioli • La storia del ricco e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31) conclude il sedicesimo capitolo del Vangelo di Luca che, iniziato con la parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16, 1-9), pone il cristiano di fronte al problema della ricchezza e del suo buon uso. Nel corso del capitolo Luca mette in guardia dal pericolo che la ricchezza comporta, perché non si può «servire a Dio e a mammona» (Lc 16,13), e al tempo stesso invita il credente a fare un buon uso dei suoi beni favorendo poveri con generosità. Saranno essi, infatti, ad accoglierlo nelle dimore eterne (Lc 16,9). Nel giudizio finale il Signore s’identifica in qualche modo con loro! (cf. Mt 25,31-46). In Luca 16 si coniugano bene le due preoccupazioni fondamentali relative alla ricchezza già chiaramente presenti nell’AT: la preoccupazione ‘sapienziale’, la quale avverte che la ricchezza può essere un male più grande della miseria quando distoglie il cuore da Dio; la preoccupazione ‘profetica’, che ricorda che nessuno è padrone dei suoi beni, ma soltanto amministratore temporaneo. I beni materiali diventano benedizione, e possono contribuire a realizzare l’essenziale della vita: accogliere il dono della salvezza, solo se usati nella logica del Dio dell’amore: Se hai, hai per dare! (cf. E. Chiavacci, Teologia morale 3/2, Assisi 1990, 157-168).

La parabola del ricco e di Lazzaro, riportata soltanto dal Vangelo di Luca, si costruisce attorno a due punti focali: l’avvertimento che il regno di Dio comporta un rovesciamento delle sorti, e l’invito ad ascoltare la Parola. Il ricco senza nome si trova abbandonato da quel Dio che accoglie «nel seno di Abramo» il povero Lazzaro. I poveri ottengono la salvezza perché la sofferenza li assimila a Gesù «che si profila dietro a Lazzaro come il risorto dai morti». I ricchi, d’altra parte, sono invitati ad ascoltare la parola di Dio che chiede loro di guadagnarsi l’amicizia dei poveri mediante l’utilizzo giusto della ricchezza. «“Mosè e i profeti”, dunque interpellano con forza specialmente i ricchi» (J. Radermakers – Ph. Bossuyt, Lettura pastorale del Vangelo di Luca, Bologna 1983, p. 357).

La missione della chiesa è, prima di tutto e soprattutto, quella di annunciare la risurrezione del Signore. Questa è la vera buona notizia da accogliere e da trasmettere. È da quest’annuncio che la chiesa nasce e rinasce nel corso delle generazioni. La parabola del ricco e del povero Lazzaro, tuttavia, vuol forse mettere in guardia i cristiani dal travisare il messaggio della risurrezione, dimenticando o sottovalutando l’appello alla giustizia nei confronti del debole e del povero che attraversa l’AT. Il Signore Gesù Cristo, con la sua vittoria pasquale, non ha certo abolito l’appello alla giustizia della Legge e dei Profeti ma, al contrario, lo ha portato a compimento. Non si può essere testimoni della risurrezione se non si è affamati e assetati di giustizia (cf. Mt 5,6). Il primo effetto della pasqua del Signore, accolta nella fede, deve essere quello di liberarci dall’indifferenza, facendoci passare dalla morte di un egoismo che rende ciechi, alla vita di un amore capace di vedere il prossimo.

Forse la colpa più grave del ricco della parabola lucana è proprio la sua indifferenza: il non accorgersi affatto del povero che giace alla sua porta. Se vogliamo essere testimoni del Vangelo dobbiamo dunque, prima di tutto, lasciarsi guarire dalla miopia esistenziale che ci fa percepire soltanto i nostri problemi. Questo oggi significa anche aprire gli occhi sui drammi del mondo.

San Giovanni Paolo II, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis (30.12.1987), paragonava l’odierno mondo globalizzato alla situazione descritta dalla parabola lucana e avvertiva che il voler ignorare la condizione di miseria che affligge la maggioranza degli abitanti del pianeta «significherebbe assimilarci al “ricco epulone”, che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta» (n. 42).

La globalizzazione annulla le distanze e ci rende tutti in qualche modo corresponsabili della situazione. Forse non abbiamo una risposta immediata su come affrontare la povertà del mondo che «giace alla nostra porta», ma quello che la Parola ci chiede è innanzitutto di non rimanere indifferenti, di accorgerci comunque degli altri.

Si tratta, in primo luogo, di ripensare i nostri stili di vita alla luce del Vangelo per riscoprire l’essenziale della vita: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33).

È vero che è solo la fede in Cristo crocifisso e risorto, e non il nostro stile vita, che ci può salvare. Ma è anche vero che questa fede muore (cf. Gc 2,17) se non opera attraverso la carità (cf. Gal 5,6). Il vangelo di Luca ci avverte che la novità della risurrezione esige donne e uomini nuovi, con stili di vita nuovi: «il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi» (Lc 5,38).

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