Armenia. Note da un viaggio
di Stefano Tarocchi • Periferia di Yerevan in Armenia, domenica mattina. In un quartiere popolare, la parrocchia cattolica si è ricavata uno spazio improvvisato in cui i locali pastorali coesistono con due cappelle ricavate nell’edificio. Un prete ci apre la porta. Ci accompagna per la celebrazione alla cappella più piccola che si affaccia si un giardino. Comincia a preparare, ma non riesce a trovare modo di accendere le due candele dell’altare, sul presbiterio simile a quelli antichi e moderno degli edifici sacri della Chiesa Apostolica, maggioritaria nel paese.
Il prete è in realtà Raphael François Minassian, l’arcivescovo della piccola comunità cattolica, sempre di rito armeno. Fino al 2011 fa risiedeva a Gerusalemme come esarca patriarcale. In precedenza aveva lavorato negli Stati Uniti, come parroco di comunità armene. «Rispetto all’esperienza di Gerusalemme è tutto cambiato», ha raccontato in un intervista. «Ho la responsabilità pastorale degli armeni cattolici in tutte le repubbliche ex-sovietiche e in alcune nazioni limitrofe, un milione circa di fedeli. Per questa ragione sono chiamato a conoscere e a visitare le varie comunità sparse in un territorio vastissimo».
Comincia così il viaggio in una delle terre sante del cristianesimo. La prima testimonianza dell’introduzione del cristianesimo in Armenia risale al I secolo, quando, dice la tradizione, vi arrivarono Bartolomeo e Taddeo, due dei dodici apostoli. L’Armenia fu la prima nazione ad adottare il Cristianesimo, quando il sovrano arsacite Tiridate III, convertito e battezzato con la sua corte da san Gregorio l’Illuminatore, nel 301 dichiarò il cristianesimo religione di Stato.
La Chiesa armena non prese parte al concilio di Calcedonia (451), in cui si affermò che Cristo è una sola persona in cui convivono due nature, quella umana e quella divina. Essa non aderì neppure alle decisioni prese dopo il concilio, tra cui la condanna del Monofisismo (sostenuto dalla Chiesa ortodossa siriaca). Essa si separò definitivamente dall’occidente latino nel 554 (un anno dopo il concilio di Costantinopoli II), quando gli armeni rigettarono le tesi “duofisite” del concilio di Calcedonia. È stata definita «monofisita»; tuttavia essa, pur essendo in disaccordo con la formula stabilita nel concilio di Calcedonia, considera il monofisismo, così come professato da Eutiche, un’eresia. La Chiesa apostolica aderisce invece alla dottrina di Cirillo di Alessandria (370-444), che considera la natura di Cristo come unica, frutto dell’unione di quella umana e divina. Per distinguere questa forma da quella di Eutiche, essa viene denominata «miafisismo». L’arcivescovo Minossian sostiene sia arrivato il tempo che la Chiesa apostolica cerchi una maggiore unità interna, risolvendo questioni legate a sedi e patriarcati indipendenti, per trovare poi un cammino di piena comunione anche con la Chiesa cattolica.
E qui è necessario parlare dell’ordine Mechitarista, dal nome del suo fondatore, Mechitar, nato nel 1676 e monaco a 15 anni nell’ordine armeno di S. Antonio abate. Mechitar dedicò la vita intera cercando di favorire il rientro della Chiesa apostolica nella comunione piena con la Chiesa cattolica.
Mechitar partì per Roma nel 1696, per approfondire gli studi, ma dopo una grave malattia fu costretto a rientrare in patria. Ordinato prete nello stesso anno, si trasferisce a Costantinopoli nel 1700, dove, con una decina di discepoli, inizia una vita di predicazione e di preghiera. L’8 settembre 1701, festa della natività di Maria, la comunità si consacra al Signore, sotto la protezione della Vergine. Questo crea un conflitto con la comunità originaria, ma anche con la popolazione musulmana, a causa della fede cristiana. Mechitar e i suoi seguaci si trasferiscono nel territorio controllato dalla repubblica di Venezia, nella penisola di Morea. Cinque anni dopo chiedono a papa Clemente XI di approvare il loro ordine. Ai tre voti originari, che nel monachesimo armeno non venivano pronunciati espressamente, Mechitar ne aggiunse un quarto: l’apostolato fino all’effusione del sangue. Gli aderenti all’ordine, inoltre, dovevano essere armeni, almeno da parte di un genitore. Papa Clemente accolse la loro richiesta, ma impose di scegliere una regola monastica occidentale. Mechitar scelse la regola di s. Benedetto.
Vicende di guerra con i Turchi conducono nel 1715 i monaci a Venezia, nell’isola di s. Lazzaro, acquistata dalla Serenissima. Già sede dei monaci benedettini, nel XII secolo l’isola fu destinata a lebbrosario, quindi ad alloggio di poveri e malati, prima dell’arrivo dei Mechitaristi era stata a lungo totalmente abbandonata. Mechitar vi muore nel 1749. Seguendo l’esempio del fondatore, i suoi monaci continuano il lavoro di riscoperta, di studio, di traduzione e di stampa di antichi scritti armeni e della traduzione in armeno di importanti opere sia classiche che della cristianità: un contributo straordinario allo sviluppo culturale del popolo armeno, per diffonderne la conoscenza anche in Occidente e, al contempo, sviluppare un cammino che riporti alla comunione con la Chiesa di Roma.
Non ci resta il tempo di parlare delle bellezze storiche e architettoniche del territorio armeno, senza trascurare le grandi croci in pietra (khachkar). Voglio solo accennare che nel 2015 sarà ricordato il centenario del genocidio armeno: i Turchi tra il 1915 e il 1923, infatti, si renderanno responsabili dello sterminio oltre 1.500.000 armeni residenti nell’Anatolia (gli “Armeni occidentali”). Nell’anno 2015 sarà celebrato il centenario del “grande male”, che segna ancora la storia di questo popolo.