di Alessandro Clemenzia • L’espressione teologia di frontiera è abbastanza di moda oggigiorno, e, per l’allusività con cui viene utilizza, soprattutto se in riferimento a un teologo, ha un’ampia gamma di significati, con accezioni tanto positive quanto negative. Anche Papa Francesco ha offerto, a tale proposito, un suo personale contributo. Basti leggere quanto ha scritto nella Lettera del 3 marzo scorso, inviata al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina, nel centesimo anniversario della Facoltà teologica. L’evento da cui il Papa prende spunto per introdurre tale argomento è il cinquantesimo dalla chiusura del Concilio Vaticano II; ed è proprio partendo da quest’ultimo che il Pontefice offre la sua peculiare visione della teologia.
Il Concilio è preso in esame soprattutto come “evento” da cui è nato un nuovo modo di cogliere la realtà, lo stesso che dovrebbe innervare anche la Chiesa odierna, e che potrebbe essere riassumibile nella parola-chiave aggiornamento: vale a dire, afferma il Papa, «una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea». Che un avvenimento sia portatore di una logica significa non soltanto fare memoria di un documento, ma recuperare quella dinamica che lo ha contraddistinto e andare avanti in quella stessa direzione, rendendo viva la medesima metodologia. Ma in che modo proseguire il cammino, rimanendo fedeli alla logica del Concilio? Nel rispondere a questa domanda, Papa Francesco afferma: «Insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa».
Un primo aspetto che viene sottolineato è l’intima e inscindibile connessione tra teologia e vita: «Insegnare e studiare teologia significa vivere […]. Si impara per vivere»; non si tratta, come è scritto più avanti nella Lettera, di una «teologia da tavolino», fatta di parole (dispute accademiche) e di pensieri astratti (un intellettualismo «che guarda l’umanità da un castello di vetro»). La teologia è vivere un luogo preciso: «Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere». Luogo di riflessione non significa “oggetto” di riflessione; non è il “ciò” su cui si deve riflettere, ma è il “dove” ci si deve collocare e il “da dove” si è chiamati a guardare e interpretare la realtà, nell’insieme e nel particolare: Dio, l’uomo e il cosmo. Abitare la frontiera, spiega il Papa, significa che:
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primo, la teologia è chiamata ad accompagnare l’uomo nelle diverse e complesse transizioni socioculturali, sempre radicata e fondata sul “centro”: la Rivelazione e la Tradizione.
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Secondo, la teologia deve non solo accompagnare, ma «farsi carico» dell’umanità, soprattutto se fragile e devastata. «Farsi carico» nel senso più radicale del termine, come “assumere”, cioè farsi fino in fondo la realtà dell’altro.
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Terzo, la teologia deve assumere l’altro, facendo sì che l’altro rimanga se stesso. In altre parole, «farsi carico» significa assumere, senza avere la pretesa di ridurre l’altro a qualcosa di diverso rispetto a ciò che è (cadendo nella tentazione, aggiunge il Papa, di verniciarlo, profumarlo, aggiustarlo e addomesticarlo).
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Quarto, i teologi, da veri pastori, devono avere l’«odore» del popolo e della strada. Ciò che più volte Francesco ha affermato a proposito dei Vescovi, nei confronti del gregge loro affidato, ora viene rivolto anche ai teologi. Avere l’odore sottintende una profonda e reale vicinanza (fino a versare «olio e vino sulle ferite degli uomini»).
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Quinto, la teologia deve esprimere, nei volti delle diverse discipline, la misericordia. Quest’ultima non è soltanto un atteggiamento pastorale, ma è il punto cardine della dogmatica, della morale, della spiritualità, del diritto: in essa si trova lo snodo fecondo dell’interdisciplinarietà. Solo così la teologia può dirsi espressione e concretizzazione di una Chiesa che è «ospedale da campo, che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo». Senza misericordia la teologia rischia di cadere «nella meschinità burocratica o nell’ideologia», e cioè di «addomesticare il mistero».
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Sesto, «comprendere la teologia è comprendere Dio, che è Amore». La teologia deve essere trasparenza del suo Oggetto/Soggetto: essa ha un’identità così relazionale che lo sguardo che si posa su di lei deve cogliere direttamente Dio Trinità.
L’auspicio che il Papa rivolge a ogni studente di teologia è quello di non diventare «un teologo da museo», lasciandosi passivamente riempire di dati di fede, ma di essere «una persona capace di costruire attorno a sé umanità». L’esperienza che il teologo fa di quel luogo particolare, che è la frontiera, non deve fermarsi al piano intimistico e personale, ma deve essere trasmessa, rendendo testimonianza, attraverso un linguaggio comprensibile, a quel Dio di cui la teologia è trasparenza. In caso contrario, il rischio in cui il teologo può imbattersi è quello di diventare «un intellettuale senza talento, un eticista senza bontà o un burocrate del sacro».