Se la “Buona Scuola” inciampa in un castello di sabbia
di Antonio Lovascio •Siamo in piena emergenza educativa. In Italia non passa giorno che episodi di violenza scolastica, atti di bullismo degenerino e finiscano sui giornali o addirittura in Tribunale. L’America invece scopre che esiste ancora la scuola preferita di Pinocchio: non si trova nel Paese dei balocchi, ma a Manhattan, per la precisione sulla 33esima strada East. Si chiama P.S. 116 e sta facendo discutere tutti gli States, perché la preside Jane Hsu ha deciso di cancellare i compiti a casa, fino alla quinta elementare. Al loro posto, i bambini saranno incoraggiati a giocare, passare più tempo con i genitori e magari leggere, però solo a piacere. Sono due facce diverse dello stesso pianeta, il pianeta-Scuola. Occupiamoci dell’Italia, dove il premier Renzi ha annunciato una svolta, con un decreto elegantemente “rottamato” (senza far rumore, com’è nel suo stile) dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e trasformato in un più appropriato disegno di legge. Ora tutto il Parlamento – quindi anche le opposizioni – è costretto a confrontarsi sulla “Buona Scuola”. Partendo – almeno speriamo – da un’analisi su quella “cattiva” di oggi (non solo per gli insegnanti “mal pagati”, giustamente difesi da Papa Francesco), prima di addentrarsi nelle linee-guida tracciate dal ministro Stefania Giannini, sulle priorità concordate con il premier. Esse puntano a riassorbire – a settembre e nel 2016 – tutti i 150 mila precari presenti nelle graduatorie ad esaurimento, esclusi quelli delle Materne ; a discutere sugli interventi di edilizia scolastica; a definire la figura del “preside manager” che, in piena autonomia, potrà scegliere gli insegnanti dall’albo provinciale dei docenti neo-assunti; a valutare l’introduzione della cosiddetta “Carta del prof” che dovrebbe prevedere per il primo anno 400 euro per tutti i docenti da spendere solo per consumi culturali (libri, teatro, concerti, mostre). Così come sono pure programmati il potenziamento delle materie e della formazione degli insegnanti, l’ingresso delle aziende nel piano formativo attraverso stages; detrazioni fiscali per le famiglie con figli che frequentano le Paritarie (escluse però le Medie Superiori ) per garantire loro maggiore libertà di scelta.“Novità” per ora solo abbozzate nel disegno di legge, che – temiamo – avrà un lungo e accidentato percorso parlamentare, perché c’è molto da rivedere e correggere.
Molti altri “nodi” sono controversi e tutti da chiarire, forse anche perché mancano le risorse. Ma oltre ai soldi, a detta di esperti ed opinionisti manca soprattutto un piano organico , un “progetto educativo” – così la ho definito nei suoi interventi la Conferenza episcopale italiana – che vada oltre i tentativi fin qui compiuti da almeno dieci ministri della Pubblica Istruzione. Un progetto educativo che – stavolta siamo pienamente d’accordo con l’editorialista del “Corriere della Sera” Ernesto Galli della Loggia: conosce bene il mondo della didattica e della ricerca – <non idoleggi ciecamente i “valori dell’impresa” e il “rapporto scuola-lavoro”, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica>. Con il bel risultato finale (lo può testimoniare chiunque e l’ho toccato con mano negli ultimi tempi della mia quarantennale esperienza giornalistica ) che oggi approdano in gran numero all’Università studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia.
C’è poi l’imbarbarimento nel linguaggio e nei comportamenti delle giovani generazioni: come si rimedia ? Mi viene spontaneo rispondere: creando nelle aule un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti – complici quasi sempre le famiglie e nell’illusione di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende – domina un permissivismo dimesso, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il proprio comodo: così c’è chi tranquillamente entra ed esce dall’aula quando vuole, chi usa a proprio piacere il cellulare nonostante il divieto dei presidi, chi interloquisce con troppa confidenza con l’insegnante. Ogni regola disciplinare è divenuta un “optional”: tanto che l’autorità di chi si siede dietro la cattedra è ritenuta quasi un orpello. Mentre su ogni scrutinio e sugli esiti degli esami di Maturità pende spesso la minaccia di un ricorso al Tar.
Per creare una “svolta”, realizzare un vero cambiamento, occorre forse guardare un po’ oltre i nostri confini. Nel confronto internazionale, il sistema italiano presenta due gravi difetti. Il primo è connesso alla durata del ciclo scolastico, più lunga degli altri Paesi europei di ben un anno. Ciò significa che un giovane italiano finisce gli studi in media a 19 anni, contro i 18 dei suoi coetanei europei, arrivando dunque più tardi all’università o sul mercato del lavoro. Peraltro, questo anno aggiuntivo non sembra tradursi in una maggior capacità di apprendimento. La questione è stata sollevata da tempo: la Germania vi ha posto rimedio, l’Italia no. Questa potrebbe essere l’occasione per farlo, ma per ora non se ne parla.
Il secondo problema è il modo in cui il ciclo scolastico viene strutturato. L’Italia con Grecia, Portogallo e Turchia condivide il record per la durata della pausa estiva (tre mesi, contro le 6 settimane di Danimarca, Germania e Regno Unito) ed ha invece vacanze più brevi e meno frequenti durante l’anno. Eppure, importanti studi scientifici dimostrano che periodi lunghi di interruzione riducono l’efficacia dell’istruzione scolastica. A questa teoria si sono subito adeguati gli stati del nord Europa (Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda) dove generalmente si ritorna in classe tra le prime due settimane e la fine del mese di agosto, lasciando spazio a più soste nel calendario didattico.
Per essere davvero “buona”, la scuola italiana deve dunque sottoporsi a profonde trasformazioni, alcune delle quali riguardano appunto l’impostazione del ciclo scolastico, purtroppo toccata solo marginalmente dall’attuale progetto di riforma. Rifiutare questi mutamenti – lo va ripetendo da tempo un autorevole economista toscano consacrato a i livello europeo: Lorenzo Bini Smaghi – significa continuare a penalizzare i ragazzi italiani, specie quelli delle famiglie meno abbienti.
Ecco perché la “svolta” è ancora lontana. La riforma non può limitarsi a degli annunci ed alle buone intenzioni. Va costruita con idee chiare da inserire in una cornice compiuta, facendo tesoro dell’esperienza e di alcuni esperimenti falliti, partendo dalle fondamenta, interrogandosi prima su quali competenze servano all’Italia dei prossimi 10-15 anni. Invece troppe scelte sembrano scaturire dalla necessità di fare assunzioni in determinate classi di concorso. Va benissimo avere più musica, o più diritto ed economia. Ma tutto ciò dovrebbe nascere da una visione generale di che cosa devono imparare gli studenti di oggi e di domani, non dal fatto che abbiamo un eccesso di precari proprio in quelle materie. Altrimenti, svanito il “profumo” inebriante di certi slogan solo apparentemente “rivoluzionari”, la “Buona Scuola” rischia di fare la fine di un castello costruito sulla sabbia.