“La morte dipinta. Arte e teologia delle cose ultime” di G. Cioli
Trinità di Masaccio (XV sec.). Il metodo che l’Autore segue, come sottolinea il noto teologo Dianich nella Prefazione, è quella di muovere ascensionalmente “dal piano pre-iconografico […] a quello iconografico a quello iconologico, con il vantaggio per questo ultimo livello di lettura di godere del prezioso background della sua competenza di teologo e della sua pregressa indagine […] sulla teologia e la spiritualità della morte”. L’autore arriva così a esplorare i nuovi orizzonti teologici che l’opera artistica dischiude, parallelamente e originalmente da quelli propri del discorso teologico; e che la teologia occidentale, nonostante essersi battuta a favore del culto delle immagini, in virtù del loro valore pedagogico e in conformità interna col dato fondamentale della teo-logica dell’incarnazione, di fatto, poco ha battuto la strada della riflessione sul dato di fede attraverso di esse: proprio in ciò sta il contributo che l’Autore, con questo testo, offre alla teologia.
sensus fidelium, elemento la cui valenza per la teologia è sempre stata riconosciuta: ogni opera è frutto e espressione di un particolare soggetto ecclesiale in una data cultura, così come si evince nella trattazione dei temi escatologici nel duomo di Orvieto rinvenibili nei diversi soggetti di diverse datazioni. L’arte come espressione di un particolare genio artistico, che fa teologia attraverso il suo specifico carisma, come Masaccio nella Trinità. Il fenomeno dell’arte cristiana, sorto naturalmente e sempre vivo, come espressione della dimensione anche (e innanzitutto) visiva della fede. E da questo ultimo aspetto, l’arte cristiana come l’attestazione della dimensione integrale e unificante di tutti gli aspetti suoi e dell’uomo: la rivelazione divina si rivolge anche e in prima istanza alla sfera emozionale umana, sollecitata dalla forza dell’immagine. Tale principio e dinamica sono stati trascurati nella teologia, a dire il vero, dalla scolastica in poi, tradendo il genio di colui a cui essa si è ispirata: per l’Aquinate – viene fatto notare – si giunge all’intelligenza dell’universale se si presta attenzione all’immagine che si ha nella mente. La stessa vicenda biblica è piena di immagini e sentimenti; il discorso razionale, contemporaneo e successivo ad essa, è certamente naturale conseguenza della rivelazione del Logos, ma esso non può mai essere disgiunto dagli aspetti su ricordati o, peggio ancora, misconoscerli.
analogatum princeps di ogni esperienza umana negativa; nella prospettiva cristiana, tale analogatum è la morte di Cristo: ogni morire è un morire con e in Cristo. Da tale ultima analogia Cioli ne consegue che nella morte risiede una forte tensione dialettica, non sanata ma anzi acuita dalla morte di Cristo: essa è, secondo la visione paolina, ripresa da Agostino, frutto del peccato, così come l’Autore mette ben in luce, ad esempio, nelle riflessioni sul tema della personificazione della morte nell’Allegoria della redenzione di Lorenzetti. La morte del Figlio è la rottura della relazione col Padre, e permette al Primo di immergersi così profondamente nella condizione umana da assumere e vincere la morte stessa; tuttavia il Padre rimane congiunto al Figlio col suo atteggiamento oblativo, come è raffigurato nella Trinità di Masaccio. La morte è attraversata dalla dialettica tra la speranza e il timore per la percezione del disordine disgregativo causato dalla corruzione del peccato quale causa agente della morte (ravvisabile nell’attenzione al tema della decomposizione corporea, come appare nella Vergine dell’Apocalisse di Del Biondo); i due termini non si annullano a vicenda ma, al contrario, si esaltano e si informano l’un l’altro, così come è evidenziato nell’analisi del genere figurativo dell’incontro dei tre vivi con i tre morti nel dittico di Daddi.
partecipa a tutta la sua morte, a tutta la sua risurrezione.