Parabola o allegoria?
di Stefano Tarocchi • La liturgia delle domeniche di questa estate ci mette di fronte ad una sezione importante dei Vangeli sinottici, quella detta delle parabole. Fra l’altro nella lingua italiana dal termine greco «parabola» deriva il nostro «parola».
Contemporaneamente, secondo la stessa fonte, l’allegoria (dal greco “parlare d’altro”) è una «figura retorica, per la quale si affida a una scrittura … un senso riposto e allusivo, diverso da quello che è il contenuto logico delle parole. Diversamente dalla metafora, la quale consiste in una parola, o tutt’al più in una frase, trasferita dal concetto a cui solitamente e propriamente si applica ad altro che abbia qualche somiglianza col primo, l’allegoria è il racconto di una azione che dev’essere interpretata diversamente dal suo significato apparente».
La missione dell’uomo di Dio, ossia il profeta Isaia, che dovrà compiere la sua missione davanti alla sua apparente inutilità, viene trasportato all’interno del Vangelo: è Gesù che la continua.
Gesù narra del seme che ad una lettura superficiale viene gettato su suoli dalla natura differente, dovuta alla normale pratica di semina al tempo e nel luogo dove si compie la sua missione.
Questa è la parabola, che ha dunque un unico orizzonte di riferimento, dato dall’apparente vanità di una fatica, su terreni sassosi e spinosi, e sulla strada, compensata però dall’abbondanza più che straordinaria del raccolto sul terreno buono. E qui l’importanza è da collocarsi sul seme e sul seminatore: la parola che egli porta non si fa annientare da nessuna fragilità e debolezza umana: è la missione di Gesù in ogni tempo, che continua nella comunità dei credenti in lui, anche se apparentemente fallimentare.
L’allegoria che accompagna la parabola, nata anch’essa all’interno della prima generazione cristiana, si sposta su un orizzonte complementare: quello del terreno che accoglie la parola. Qui sono importanti i singoli dettagli, che infatti vengono puntualmente spiegati. Ora il terreno che la accoglie la parola è importante, ma non può fermarne la straordinaria fecondità. In altri termini, i credenti dovranno sforzarsi di diventare il terreno fecondo, quello buono, ma non potranno mai sostituire sé stessi all’azione divina che Gesù lascia come compito alla comunità dei suoi discepoli.
Il «mistero del regno di Dio», affidato ai discepoli, e in particolare ai Dodici, verrà rivelato pienamente solo alla fine dei tempi. L’azione di Gesù, prende atto dell’incomprensione delle sue parole per «quelli che sono fuori», e anche della possibile indolenza degli stessi discepoli.
In sostanza, questo «mistero» è stato nascosto mediante le parabole, non «per la loro oscurità e complicazione – come scrive un commentatore –, ma proprio per la loro semplicità…: il significato delle parabole si svela solamente a colui che capisce che hanno a che fare con il Messia Gesù». Con la venuta del suo Figlio, Dio ha stabilito che è ormai il tempo di ascoltare la sua parola. Come scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).