La riforma ecclesiale parte dal pensare il pensiero
di Alessandro Clemenzia • È evidente che un medesimo e determinato oggetto può essere colto in modo molto differente a seconda dello sguardo del soggetto. Tale affermazione non implica un’obbligata caduta nel relativismo, ma chiede di porre l’attenzione sul “luogo” in cui si colloca chi guarda, in quanto è esso a determinare lo sguardo prospettico. E questo è ancor più vero non soltanto quando l’oggetto è il medesimo, ma soprattutto quando medesimo è il soggetto. Uno stesso soggetto, dunque, può interpretare in modo differente un oggetto in relazione al “da dove” egli decide di guardare.
Quanto affermato vale per i diversi ambiti del sapere, e, fra tutti, per la teologia. Soprattutto negli anniversari che ricordano il grande Concilio Ecumenico Vaticano II, come è recentemente avvenuto in occasione del cinquantesimo dalla sua chiusura, tale riflessione trova la sua attuazione. Più che parlare di sguardo prospettico o di “luogo”, si fa ricorso al termine “ermeneutica”: si tratta dell’interpretazione di un evento, privilegiando spesso una prospettiva rispetto alle altre. Come si può ben immaginare: non esiste un’unica ermeneutica del Concilio, ma numerose ermeneutiche, che ormai si distinguono fondamentalmente in due gruppi: l’ermeneutica della discontinuità e della rottura, da una parte, e l’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, dall’altro.
Senza soffermarsi ulteriormente su questo argomento, basti qui ricordare che queste due ermeneutiche si sono spesso trovate in contrasto l’una con l’altra, non soltanto quando dovevano interpretare l’evento conciliare e i documenti da esso promulgati, ma anche quando si volevano contestualizzare teologicamente le parole e l’operato di Papa Francesco.
È uscito abbastanza recentemente un ampio volume della collana “Biblioteca di Teologia Contemporanea”, intitolato La riforma e le riforme nella Chiesa, a cura di A. Spadaro e C.M. Galli (Queriniana 2016). Si tratta della pubblicazione degli atti di un seminario di studi, tenutosi a Roma nella sede della rivista La Civiltà Cattolica (28 settembre – 2 ottobre 2015), che ha visto protagonisti una trentina tra ecclesiologi, canonisti, storici, ecumenisti e pastoralisti, provenienti dalle diverse parti del mondo, che hanno avuto modo di pensare insieme e interdisciplinarmente alcuni temi di maggiore rilievo nell’odierno contesto ecclesiale e sociale. Un evento che esprime il «ministero pastorale della teologia» (p. 11). L’origine, lo sviluppo e la finalità di questo evento, e di conseguenza del volume, come si legge sin dall’introduzione, è quello di «costituire un insieme vario di diversi contributi teologici di altissimo livello per pensare le riforme della e nella chiesa» (p. 9). L’oggetto della discussione, la riforma, ha richiesto ai partecipanti un particolare metodo di lavoro: «Ciascun processo deve essere capito in ogni momento. Per questa ragione la riforma ha bisogno di soggetti disponibili nei confronti dello Spirito e capaci di uscire da sé, in opposizione al fatto di concentrarsi su se stessi nelle forme dell’autoreferenzialità» (p. 11). Il tema della riforma, dunque, richiede un preciso esercizio del pensiero, personale e comunitario, che trova in Cristo la sua modalità espressiva: «il concetto di riforma spinge la chiesa a conformarsi in modo dinamico con la forma Christi» (p. 11).
Recentemente è uscito un altro libro, in risposta al volume citato, scritto dal vescovo Agostino Marchetto, intitolato: “La riforma e le riforme nella Chiesa”. Una risposta (Libreria Editrice Vaticana 2017). L’autore, che da più di trent’anni ha dedicato la sua ricerca al Vaticano II, pur riconoscendo e apprezzando il lavoro di ciascun autore, scorge un certo tono monocorde del coro. Coro che, secondo quanto scritto nell’introduzione di Spadaro e Galli, ha dovuto comunque fare i conti con quella dinamica – tipica del pensare insieme – dell’uscire ciascuno da se stesso, con tutto il rischio che tale decentramento comporta. Di fronte a tale unilateralità, secondo l’autore, è necessario far sentire un’altra voce, «che si dirà forse tradizionale ma non tradizionalista» (p. 5). Di fronte a una marcata sottolineatura della dimensione sinodale e collegiale della Chiesa, egli desidera recuperare sì il ruolo della sinodalità, ma in relazione al primato petrino. Anche Marchetto, nell’offrire un’altra voce al coro, riprende le parole di Papa Francesco, soprattutto quando, a proposito della Chiesa sinodale, mostra il ruolo di Pietro che accompagna la Chiesa. Fondando la sua riflessione, dunque, sul Magistero pontificio attuale, l’autore rilegge, commenta e si pone in dialogo con ogni contributo, frutto del seminario – già menzionato – del 2015.
L’orizzonte all’interno del quale si è collocato Agostino Marchetto, come ha sottolineato chiaramente nel suo volume, è quello della riforma di rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa. Il recupero di tale ermeneutica, che ha fatto in qualche modo da sfondo a tutta l’elaborazione del volume, in risposta ad alcuni autori si è fatto più marcato.
La difficoltà di affrontare un tema quale quello della relazione tra primato e sinodalità sta nel trovare un metodo logico (teo-logico) che non si accontenti di passare dall’esclusivo “aut aut” all’inclusivo “et et”. Quest’ultima formula, infatti, pur ammettendo la coesistenza di entrambe la parti, non ne spiega tuttavia fino in fondo la dinamica che anima la relazione tra loro: infatti, al di là d’esserci sia l’uno che l’altro (primato e sinodalità), l’uno si dà nell’altro.
Non solo non mi scandalizza questo dibattito fatto di proposte e risposte teologiche, ma trovo in esso il fascino del pensare ecclesiale, che si esprime proprio nel tentativo di spiegare una molteplicità che trova nell’unità la sua forma relazionale attuativa. E in questo tentativo di comprensione si ha quella Ecclesia semper reformanda.