di Francesco Vermigli • Breslavia è la prima grande città che si incontra nell’attraversamento della Slesia, provenendo dalle regioni alpine. Breslavia è stata austriaca, poi prussiana e tedesca; ora – dopo la seconda guerra mondiale – Breslavia è città polacca. Per tutte queste vicende storiche, essa può essere considerata l’emblema di quello che si intende quando si parla di Mitteleuropa. Come la tolkeniana “Terra di mezzo”, la Mitteleuropa è un luogo dell’anima prima ancora che una condizione geografica; il luogo della complessità dell’evo moderno con le sue potenzialità, ma anche con le sue innumerevoli tensioni; la Mitteleuropa è il luogo della crisi di quella modernità che si era cullata nel mito ottocentesco delle magnifiche sorti e progressive. È l’epoca siglata dall’individualismo velato dall’assurdità e dall’inettitudine: quell’individualismo introspettivo e sofferto – fino a giungere alla nevrosi – che si vede ben rappresentato da Josef, protagonista kafkiano del Processo, e dallo Zeno de’ La coscienza di Zeno del triestino Svevo. Nell’ottobre del 1891 in quella stessa Breslavia mitteleuropea nasceva da una famiglia di origine ebraica colei che sarebbe diventata una promettente studentessa e che nella propria tesi – sostenuta a Friburgo, sotto la direzione di Husserl – reca un segnale del superamento della visione monadica dell’uomo, tanto prevalente in quella temperie culturale.
L’incontro con il professore capostipite della fenomenologia fu – come ben si sa – decisivo per lo sviluppo del pensiero di Edith Stein. È proprio la tematica della sua tesi sostenuta con Husserl a offrirci un’interessante chiave di lettura del posto occupato dalla giovane discepola nel quadro della cultura mitteleuropea. Già il tema della tesi dedicato all’empatia (Einfühlung) la pone infatti in una posizione non consonante con gli sviluppi dell’individualismo a lei contemporaneo. Della fenomenologia è certo l’attenzione al soggetto che conosce e all’interiorità che si relaziona all’oggetto, ma – rispetto ad ogni forma di individualismo solipsistico e straniante – nella Stein v’è anche la percezione che è la realtà che si dà a conoscere. In un film di una ventina d’anni fa dedicato alla sua vita convulsa e grandiosa, da giovane professoressa risponde in questi termini a Franz Heller, collega della Stein e vecchio spasimante respinto: “la mente non può produrre la verità, la può soltanto trovare” (La settima stanza, 1995). Un’affermazione coerente con il suo iniziale interesse per la fenomenologia, ma anche con la sua conversione cattolica e quindi alla vita religiosa; come proveremo ad accennare.
Come si sa, le ragioni personali che condussero Edith prima alla scelta di farsi battezzare e poi all’entrata in religione, sono state oggetto di indagine e di discussioni continue presso la critica. In particolare, ci si è domandati che cosa abbia significato per la sua conversione l’aver convintamente sostenuto la linea della fenomenologia e soprattutto l’essere stata studentessa e assistente di Husserl. Lei stessa affermerà che nel cambiamento fondamentale della sua vita abbia giocato un ruolo assolutamente decisivo la lettura di Teresa d’Avila; mentre dopo la conversione una parte non marginale del suo impegno intellettuale diverrà la ricerca di una conciliazione tra la fenomenologia e la grande speculazione tommasiana. Tali indicazioni – certamente assai generali – ci pongono davanti ad un quadro dell’evoluzione del suo pensiero ricolmo di significati grandissimi. Dell’empatia di cui tratta la tesi diretta da Husserl, è la ricerca di cosa voglia dire da un punto di vista gnoseologico entrare in contatto con il sentimento e l’interiorità dell’altro. Ma tanto l’ispirazione ai grandi carmelitani quanto la redazione delle sue opere – connotate dalla figura epistemologica della “scienza della croce” – inducono a percepire un collegamento tra i fondamenti fenomenologici del suo pensiero e gli snodi salienti della sua spiritualità più profonda.
In altri termini, la conoscenza che si deriva dalla croce di Cristo è la conoscenza di una verità che si dà a conoscere all’uomo nell’offerta suprema del sacrificio. Della mistica carmelitana – e, a ben vedere, di ogni forma di mistica – è il porsi in relazione con Qualcuno che si fa conoscere, prima che si possa esplicare lo stesso sforzo conoscitivo dell’uomo. Della mistica carmelitana – e, a ben vedere, di ogni forma di mistica – è avere a che fare con l’Amore che si comunica; avere a che fare con la realtà amorosa di un Dio che riscatta l’uomo e lo solleva. Per dirla con le parole della protagonista de’ La settima stanza, è avere a che fare con l’Amore che l’uomo non può produrre e darsi, ma che può soltanto trovare.
In conclusione di questa presentazione certo sommaria di un percorso di pensiero assai complesso, ci sembra che l’attenzione alla realtà che percorre l’intero sviluppo dalla fenomenologia husserliana alla mistica carmelitana si ponga come una sorta di antidoto alla crisi di quella civiltà occidentale, che – oggi forse come allora – cova i germi di un individualismo sterile ed esangue, sotto le vesti splendenti di un mondo apparentemente pacificato.