di Francesco Vermigli • La prima metà del mese di agosto è punteggiata da una serie di grandissime figure di santi: quasi ogni giorno la Chiesa ricorda un uomo o una donna che hanno lasciato un segno profondissimo nella sua storia. Il primo giorno del mese si celebra la memoria di un grande avvocato e poi vescovo e autore di un canto popolarissimo, come Tu scendi dalla stelle (Alfonso Maria de’ Liguori); il 4 agosto si ricorda il patrono dei parroci (Giovanni Maria Vianney), quel Curato d’Ars, la cui figura e il cui modello fu al centro dell’anno sacerdotale nel 2010; il 7 si commemora il fondatore dell’ordine dei teatini (Gaetano da Thiene) e l’8 il fondatore di quell’ordine che per molti secoli ha rivendicato un ruolo primario nello sviluppo della teologia cattolica (san Domenico di Guzman); il 9 la Chiesa ricorda la figura di una donna di origine ebraica, filosofa, convertita al cattolicesimo, fatta carmelitana e morta ad Auschwitz, ora compatrona d’Europa (Edith Stein, santa Teresa Benedetta della Croce); il 10 cade la festa di san Lorenzo, diacono e martire della Roma protocristiana; l’11, infine, si commemora la fedele discepola di san Francesco nella sequela di Cristo povero (Chiara d’Assisi). Senza dimenticare, poi, che il secondo giorno del mese si ricorda il cosiddetto “Perdono di Assisi”, il 5 si commemora la dedicazione della prima basilica mariana in Occidente (Santa Maria Maggiore a Roma) e il 6 si celebra la festa della Trasfigurazione del Signore.
Ma il 14 agosto, giorno precedente alla solennità dell’Assunzione di Maria, la Chiesa presenta alla devozione del popolo di Dio un uomo che raccoglie nella propria vita aspetti emergenti dalla temperie spirituale di inizio agosto. È un frate che condivide la cifra francescana dei primi giorni del mese (il Perdono di Assisi e santa Chiara), porta iscritta nella propria vita la venerazione alla Madonna (in parallelo alla Dedicazione di Santa Maria Maggiore), è morto nello stesso campo di concentramento di Edith Stein e con lei e con san Lorenzo condivide il medesimo destino di martirio. Stiamo parlando di san Massimiliano Maria Kolbe.
Nato nel 1894, Raimondo (questo il suo nome di battesimo, prima dell’entrata in religione) può essere considerato il simbolo della Polonia antecedente alla Grande Guerra; crocevia tra mondo slavo e tedesco, cattolico ed ebraico. Entrato tra i francescani conventuali, assunse il nome di Massimiliano Maria e fu inviato a studiare alla Gregoriana a Roma e poi al San Bonaventura. Rientrato in Polonia, insegnò nei seminari, dimostrò un’attenzione tutta particolare per i nuovi mezzi di comunicazione e costituì la Milizia dell’Immacolata. Quindi fu per alcuni anni in Giappone, in particolare a Nagasaki: in quella città, cioè, che sarebbe divenuta tristemente famosa per la bomba atomica, ma che è stata ancora prima lo storico centro di irradiazione del cattolicesimo giapponese fin dalla fine del ‘500, sotto la spinta dell’evangelizzazione gesuitica. Tornato in Europa, fu arrestato dalla Gestapo a Niepokalanów – convento da lui fondato nel 1927, il cui nome significa “proprietà dell’Immacolata” – il 17 febbraio 1941. Condotto ad Auschwitz, si sostituisce a Franciszek Gajowniczek (padre di famiglia, scomparso ultranovantenne nel 1995) che era stato scelto insieme ad altre nove persone per farle morire di fame, in rappresaglia di un tentativo di fuga di un prigioniero. Muore il 14 agosto del 1941, secondo le testimonianza affermando a colui che stava per compiere l’iniezione letale: “l’odio non serve a niente… Solo l’amore crea!”. In ragione di queste parole e del fatto che lo condusse alla morte – la volontaria sostituzione nella condanna a morte, in favore di un padre di famiglia – san Massimiliano Maria Kolbe viene ricordato come “martire dell’amore”. Lo definì in questi termini già Paolo VI nell’atto di beatificarlo, ma è soprattutto l’omelia della messa di canonizzazione ad opera di Giovanni Paolo II del 10 ottobre 1982, che si struttura sulla semantica della carità e dell’amore; come si apprende facilmente dalla stessa citazione evangelica, con cui il papa inizia il ricordo di questa figura: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Negli anni della beatificazione e della canonizzazione di Massimiliano Maria Kolbe, si è dibattuto circa la correttezza del titolo di martire, rivolto al frate francescano; dal momento che nella storia esso reca con sé il riferimento all’uccisione di un cristiano in odium fidei: il martire è tale, perché – di fronte alla minaccia di morte e agli inviti all’apostasia – non rinnega e confessa la propria fede in Cristo. Tuttavia l’uso di questa formula che in diverse occasioni il magistero ha fatto a riguardo di Kolbe, chiede un’interpretazione. Si direbbe che l’esempio del frate conventuale si può considerare nei termini di una confessione dell’amore di Cristo fino al sacrificio della propria vita; di quell’amore, cioè, che ha la propria origine in Cristo stesso. Si potrebbe dire che Massimiliano fu ucciso in odium amoris: fu ucciso, perché non fu colto il messaggio d’amore gratuito e soprannaturale che l’atto eroico – compiuto per la salvezza di un fratello – portava con sé.