La politica e l’Italia dei troppi corrotti
di Antonio Lovascio • Tangentopoli, 25 anni dopo. L’Italia non ha imparato nulla da quella stagione di scandali, che, nei primi anni Novanta, ha coinvolto imprenditori, uomini politici, decimato la classe dirigente della cosiddetta Prima Repubblica. Anzi, la nebbia ora si è fatta più fitta in un Paese che ha perso il senso dell’orientamento, invischiato nella melma dell’instabilità e della corruzione, “la ruggine che ci corrode: un cristiano che la fa entrare dentro di sé, puzza”, per usare le parole di Papa Francesco.
Detto questo, non si deve però guardare alla corruzione come a un problema squisitamente amministrativo e giudiziario, incoronando di volta in volta sceriffi e giustizieri, diffondendo un clima di sospetto e di sfiducia e, così facendo, riducendo anche le politiche anticorruzione a strumento estrattivo anziché inclusivo.
Giustamente la dottrina sociale della Chiesa affronta questo fenomeno nella sua dimensione più ampia, riferendosi a qualsiasi forma di disumanizzazione dei meccanismi di convivenza sociale che, richiede invece valori morali condivisi. La risposta alla corruzione non può, dunque, essere né l’antipolitica, né una diffusa sfiducia nelle istituzioni, bensì, un modello di sistema democratico e aperto, che favorisca la partecipazione attiva ai processi decisionali quale presupposto stesso di un’ecologia umana. Sarà la trasformazione delle virtù individuali in un solido ordine sociale a fare da argine alla corruzione, alle clientele e ad ogni forma degenerativa del potere.