di Alessandro Clemenzia • Per chi è in qualche modo addentro nella teologia, l’ultima intervista rilasciata al Papa emerito Benedetto XVI muove almeno due sentimenti. Il primo può essere così espresso: l’esercizio del teologo non è una professione che termina con il pensionamento, ma è vita, è un continuo dinamismo suscitato da un particolare sguardo sulla realtà. In questo senso, Benedetto XVI è veramente un teologo, non tanto per la carriera accademica percorsa, quanto piuttosto per quell’occhio prospettico con cui legge e interpreta le situazioni, da quelle più fondative della fede a quelle di attualità.
C’è anche un secondo sentimento: è quasi evidente che, col passare degli anni di un uomo, il pensiero teologico possa, da un lato, raggiungere sempre maggiori profondità, dall’altro, essere espresso attraverso un linguaggio sempre più semplice, comprensibile a tutti, pure a coloro che non coltivano tale scienza. Anche in questo, Benedetto XVI mostra esperienzialmente come la vera teologia scaturisca non da una mera concettualizzazione, ma da un cuore che non si sottrae all’intelligenza e sa scavare a fondo. Tornano alla mente qui le parole pronunciate da Papa Francesco nell’ultima Messa Crismale: «Ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate». La vera teologia è quella che nasce dall’esperienza di uno sguardo di fede sulla realtà, e non – per tornare alle parole dell’omelia di Francesco – da un «eccesso di spiritualità “frizzanti”, di spiritualità “light”».
Diversi sono i temi trattati in questa intervista; tra tutti, ci soffermiamo almeno su due di grande attualità: la “dimensione ecclesiale della fede” e il “movimento della misericordia”.
Per quanto concerne il primo tema, è interessante vedere come il Papa emerito passi da un contesto tipicamente antropologico ad uno ecclesiologico; se è vero, infatti, che la fede è ciò che di più intimo e personale ci sia nell’uomo in relazione a Dio, è altrettanto vero che essa è inseparabile dalla comunità, poiché l’incontro personale con Cristo introduce il singolo io all’interno di un noi: «L’incontro con Dio significa anche, al contempo, che io stesso vengo aperto, strappato dalla mia chiusa solitudine e accolto nella vivente comunità della Chiesa». La realtà più interiore dell’uomo è il luogo in cui avviene una spinta verso l’esteriorità: la fede ha proprio a che fare con questo continuo gioco tra interiorità ed esteriorità. Essa non nasce dall’interno dell’uomo, «non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità» del suo essere, ma scaturisce dall’ascolto (fides ex auditu) della Parola attraverso cui Dio, «dal di fuori», interpella l’uomo. E questa provenienza della fede dall’esterno ha a che fare con la comunità: «Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile».
Ma anche la comunità, quello spazio all’interno del quale il singolo io viene inserito, in risposta all’ascolto di Dio, non trova in sé la propria origine e causa, proprio in quanto «non è un’assemblea di uomini che hanno delle idee in comune e che decidono di operare per la diffusione di tali idee», ma «è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui». Anche la Chiesa, dunque, trova fuori di sé quella forza dinamica che l’ha fatta essere e che continua a farla essere. Al di là del ritmo tra interiore ed esteriore viene qui ribadita un’altra grande verità, di portata ecclesiologica e antropologica: Dio porta all’essere la sua creatura nel momento della creazione, e continua a donarle continuamente l’essere lungo il tempo.
Questo gioco tra interiorità ed esteriorità è un tema tipicamente agostiniano: trapela, dunque, anche in quest’intervista, quella matrice che ha caratterizzato il pensiero di Benedetto XVI sin dalle prime opere giovanili.
Il secondo tema degno di nota potrebbe essere sintetizzato come “il movimento della misericordia”. Il Papa emerito affronta questo argomento nel rispondere a una domanda circa la dottrina della giustificazione, in rapporto alla teologia di Lutero. Tale riflessione, che concerne la relazione tra Dio e uomo, viene fatta alla luce dell’idea della misericordia di Dio, la quale ha in sé un duplice dinamismo: quello di Dio che si china verso l’uomo, e quello dell’uomo che, consapevole della propria miseria, è in attesa che Dio si pieghi con tenerezza su di lui per raccoglierlo e rialzarlo. Ed è proprio a partire dal tema della misericordia di Dio, tanto caro a Papa Francesco, che Benedetto XVI reinterpreta il nucleo centrale della dottrina della giustificazione.
Tante sarebbero ancora le cose da mettere in luce. Quello però che più sorprende è la grandezza di un uomo che, con grande semplicità e coraggio, continua a testimoniare uno sguardo “calamitato” da Cristo.