L’ermeneutica di Jean Grondin

(Queriniana, 2012) offre una presentazione sintetica della riflessione filosofica attorno al concetto di interpretazione, del quale individua tre grandi accezioni.

dicta rimanda a dei signa; nel caso della Scrittura il segno supremo è l’amore, il criterio principe col quale interpretare ogni passo di essa.

Friedrich Schleiermacher pone l’accento sul comprendere (e non più sull’interpretare) per cui “è lo stesso atto del comprendere – scrive il teologo – ad aver bisogno di essere garantito da un’arte”. Wilhelm Dilthey, dal canto suo, lottando contro sia il positivismo sia l’idealismo cerca di fondare la specificità metodologica delle scienze umane nella metodologia della comprensione imperniata sulla triade vissuto-espressione-comprensione all’insegna del “ricreare in se stessi – spiega Grondin – il sentimento vissuto dall’autore, partendo dalle sue espressioni”. Martin Heidegger vede una dimensione esistenziale nel concetto di ermeneutica: essa diventa una vera filosofia universale dell’interpretazione che passa dall’avere come oggetto il testo al prendere in esame l’esistenza, come “fatticità”, la quale è capace di, protesa verso e vissuta sempre in seno a, un’interpretazione. Essa risveglia il Dasein assopito, distruggendo le interpretazioni che lo tengono in oblio. Per l’ermeneutica, intesa come il carattere della fenomenologia, ogni comprensione è determinata da pre-comprensioni che non vanno abolite – il che risulta peraltro impossibile – ma convenientemente assunte.

œur riconosce pari diritto di cittadinanza sia all’ermeneutica “della fiducia” che “del sospetto”. L’ermeneutica, definita da lui come “la teoria delle operazioni di comprensione nel loro rapporto con l’interpretazione dei testi”, prende in esame i testi, intesi come tutto ciò che può essere compreso alla luce della coscienza storica. Ma “se noi – commenta Grondin – siamo gli eredi della tradizione, l’identità narrativa che ereditiamo dalla storia non è mai né stabile né chiusa: essa dipende anche dalla risposta che noi possiamo darle”. Jacques Derrida eredita da Heidegger il programma ermeneutico soprattutto per quanto concerne l’elemento distruttivo che smaschera i presupposti metafisici della tradizione occidentale. Ciò che impera sempre è una différance tra il segno e il senso. In tale visione si può parlare di “panermeneutica”: “l’essere – spiega Grondin – non sarà più che un effetto della différance, perché esso resterebbe inattingibile fuori dai segni che lo esprimono”. Ecco il compito dell’ermeneutica: puntare non a comprendere, ma a interrompere la volontà di comprensione della metafisica.

à dei processi ermeneutici. La comprensione non può non essere raggiunta che mediante l’interpretazione dei segni – carattere, quello di segno, intrinseco delle determinazioni della realtà e che chiede, per sua natura, di essere interpretato – e le interpretazioni delle interpretazioni altrui relative a quei medesimi segni; essa, a sua volta, non può ontologicamente non darsi che grazie alle precomprensioni – innate (secondo alcuni filosofi), psicologiche, storiche, culturali – e al linguaggio.

àmbiti ermeneutici il compito di percorrerli.