di Dario Chiapetti • Il filosofo canadese Jean Grondin in L’ermeneutica (Queriniana, 2012) offre una presentazione sintetica della riflessione filosofica attorno al concetto di interpretazione, del quale individua tre grandi accezioni.
Nel senso classico essa designa l’arte di interpretare i testi, soprattutto quelli sacri e canonici, come ci attestano autori quali Cicerone, Aristotele, Agostino. Tale arte inizia già con la fase di elocuzione, che va dal pensiero al discorso, la quale riporta, con la fase di traduzione, le parole al pensiero. La connessione tra discorso interiore ed esteriore mette in luce il rapporto tra sforzo retorico ed ermeneutico. Ecco perché i criteri dell’ermeneutica sono desunti dalla retorica. Per Agostino ogni dicta rimanda a dei signa; nel caso della Scrittura il segno supremo è l’amore, il criterio principe col quale interpretare ogni passo di essa.
Nel senso moderno l’ermeneutica diviene – scrive Grondin – “la riflessione metodologica sulla pretesa di verità e sullo statuto scientifico delle scienze umane”. Friedrich Schleiermacher pone l’accento sul comprendere (e non più sull’interpretare) per cui “è lo stesso atto del comprendere – scrive il teologo – ad aver bisogno di essere garantito da un’arte”. Wilhelm Dilthey, dal canto suo, lottando contro sia il positivismo sia l’idealismo cerca di fondare la specificità metodologica delle scienze umane nella metodologia della comprensione imperniata sulla triade vissuto-espressione-comprensione all’insegna del “ricreare in se stessi – spiega Grondin – il sentimento vissuto dall’autore, partendo dalle sue espressioni”. Martin Heidegger vede una dimensione esistenziale nel concetto di ermeneutica: essa diventa una vera filosofia universale dell’interpretazione che passa dall’avere come oggetto il testo al prendere in esame l’esistenza, come “fatticità”, la quale è capace di, protesa verso e vissuta sempre in seno a, un’interpretazione. Essa risveglia il Dasein assopito, distruggendo le interpretazioni che lo tengono in oblio. Per l’ermeneutica, intesa come il carattere della fenomenologia, ogni comprensione è determinata da pre-comprensioni che non vanno abolite – il che risulta peraltro impossibile – ma convenientemente assunte.
Nel senso post-moderno un’ermeneutica non metodologica delle scienze umane che recuperi il valore della soggettività è teorizzata da Hans-Georg Gadamer. I pregiudizi sono condizione della comprensione, la valutazione della legittimità di essi è affidata alla distanza temporale che permette di cogliere il “lavoro della storia” e la sua coscienza. La comprensione risulta così l'”applicazione” di un senso al presente. In tale visione è il linguaggio ad assumere il ruolo di oggetto e compimento dell’ermeneutica: la comprensione è evento di linguaggio e l’oggetto di essa è un fatto di linguaggio. Esso è l’articolazione dell’essere stesso delle cose. A Gadamer si oppose Jürgen Habermas che tentò di risolvere il problema con una critica delle ideologie che però sembrò al primo troppo poco critica delle ideologie di cui il secondo si dimostrò intriso! Paul Ricœur riconosce pari diritto di cittadinanza sia all’ermeneutica “della fiducia” che “del sospetto”. L’ermeneutica, definita da lui come “la teoria delle operazioni di comprensione nel loro rapporto con l’interpretazione dei testi”, prende in esame i testi, intesi come tutto ciò che può essere compreso alla luce della coscienza storica. Ma “se noi – commenta Grondin – siamo gli eredi della tradizione, l’identità narrativa che ereditiamo dalla storia non è mai né stabile né chiusa: essa dipende anche dalla risposta che noi possiamo darle”. Jacques Derrida eredita da Heidegger il programma ermeneutico soprattutto per quanto concerne l’elemento distruttivo che smaschera i presupposti metafisici della tradizione occidentale. Ciò che impera sempre è una “différance“ tra il segno e il senso. In tale visione si può parlare di “panermeneutica”: “l’essere – spiega Grondin – non sarà più che un effetto della différance, perché esso resterebbe inattingibile fuori dai segni che lo esprimono”. Ecco il compito dell’ermeneutica: puntare non a comprendere, ma a interrompere la volontà di comprensione della metafisica.
Grondin mostra, in conclusione, l’acquisizione da parte della filosofia della complessità dei processi ermeneutici. La comprensione non può non essere raggiunta che mediante l’interpretazione dei segni – carattere, quello di segno, intrinseco delle determinazioni della realtà e che chiede, per sua natura, di essere interpretato – e le interpretazioni delle interpretazioni altrui relative a quei medesimi segni; essa, a sua volta, non può ontologicamente non darsi che grazie alle precomprensioni – innate (secondo alcuni filosofi), psicologiche, storiche, culturali – e al linguaggio.
I sentieri tracciati da tale riflessione, che coglie la relatività – non il relativismo – della verità ai suoi oggetti, contestualizzandoli e così approfondendola, sono molteplici: ai vari àmbiti ermeneutici il compito di percorrerli.