Le virtù cardinali e la prudenza

265 500 Gianni Cioli
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126539di Gianni Cioli • Che cos’è una virtù? I filosofi e teologi medievali, come ad esempio san Tommaso d’Aquino, rispondevano che la virtù è un abito operativo buono, ovvero una disposizione interiore stabile che ci orienta a fare il bene con facilità e volentieri. Il vizio, al contrario è un abito operativo cattivo, che ci orienta a fare, con facilità e volentieri, il male. Le virtù, secondo questi autori, perfezionano le nostre facoltà, come l’intelletto e la volontà, disponendoci a riconoscere ciò che è buono e a volerlo con fermezza. Esse ci portano a fare la cosa giusta, aiutandoci a distinguere ciò che giusto con chiarezza, facendocelo desiderare con tutto il cuore, sostenendoci di fronte agli ostacoli e alle paure, e moderando la nostra istintiva attrazione per ciò che è piacevole affinché non deviamo facilmente dal sentiero del bene.

Le virtù, sostenevano i medievali, si possono acquisire con l’esercizio, ovvero con la ripetizione degli atti buoni, ma alla fine, nella loro compiutezza, esse sono essenzialmente un dono di Dio. Per questo motivo, per raggiungere appieno il loro obiettivo, le virtù cardinali – chiamate così perché intorno ad esse ruotano tutte le altre virtù morali – devono radicarsi nelle teologali, ovvero nella fede, nella speranza e, soprattutto, nella carità.

I filosofi antichi e i teologi medievali ritenevano, fra l’altro, che le virtù dovessero essere considerate, nel loro insieme, una sorta di organismo, ovvero sostenevano che ogni singola virtù, per funzionare, debba lavorare in sinergia con tutte le altre.

La prima delle virtù cardinali è la prudenza che potremmo definire come la capacità della persona matura di ottimizzare la propria ragione pratica per scegliere il bene. La prudenza come la ragione pratica ha due volti – e proprio così la raffigura Giotto nella Cappella degli Scrovegni! – uno cognitivo e uno direttivo. Essa conosce e decide. Non si può infatti fare il bene prescindendo dall’impegno umile e paziente della conoscenza. Per cambiare in meglio la realtà bisogna prima accettarla per quello che è. A questo proposito san Tommaso ha segnalato tre parti integranti della prudenza: la memoria, presupposto necessario di ogni conoscenza obiettiva; la docilità, disponibilità ad apprendere dall’esperienza altrui; la solerzia, elasticità mentale irrinunciabile per misurarsi con la realtà. Ma la prudenza, come si è detto, ha anche un volto direttivo al quale corrisponde, come premessa, un’altra parte integrante: la provvidenza, ovvero la capacità di valutare se una determinata azione potrà ragionevolmente condurre alla realizzazione del bene. Naturalmente la prudenza non potrebbe esistere se non fosse sostenuta dalle virtù propriamente etiche che ruotano intorno alle altre cardinali. Il buon esercizio della ragione pratica presuppone infatti la considerazione e la rettificazione non solo della dimensione razionale della persona, ma anche di quella affettiva ed emotiva. La prudenza necessita in effetti di un amore previo per il bene e richiede, nella persona, una disposizione affettiva capace di accogliere ed eseguire le indicazioni pratiche della ragione.

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