La difesa di Pio XI per gli etiopi e gli ebrei

300 199 Mario Alexis Portella
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pio-xi-mussolinidi Mario Alexis Portella • Quest’articolo riprende dal mio libro Abyssinian Christianity: The First Christian Nation? (2012) che analizza come la Chiesa Cattolica Romana sotto il pontificato di Papa Pio XI facesse ogni tentativo per difendere l’Etiopia dall’aggressione fascista italiana di Benito Mussolini e dall’aggressione nazista contro gli ebrei.

L’unica voce libera in Italia nel 1935 era quella di Papa Pio XI che, il 28 agosto, diceva che “una guerra condotta unicamente per conquistare era una guerra ingiusta: qualcosa di indicibilmente triste ed orrenda”.

Papa Pio XI, pontefice dal 1922, aveva esperienza di diplomazia internazionale e di sensibilità pastorale, che lo metteva in grado di affrontare il problema del conflitto italo-etiopico, associato al crescente problema dell’antisemitismo degli anni ’30. Si può anche affermare senza esitazione che ebbe particolare affetto per gli etiopi e gli ebrei. Ciononostante, le conseguenze della guerra italo-etiopica avevano causato malintesi tali da costringerlo alla fine a cessare d’essere amico di Mussolini e a diventare amico degli etiopi. L’obiettivo di questa presentazione è provare, date e fatti storici alla mano, l’incondizionata benevolenza di Pio XI verso gli etiopi e gli eritrei. Per comprendere questo appieno, dobbiamo dare uno sguardo anche alla sua lotta contro l’antisemitismo. Cominciamo con l’aggressione agli abissini.

Una falsa affermazione

L’Ethiopian Church News del 7 febbraio 1986 scriveva: «Dalle contemporanee cronache apprendiamo che, quando l’Italia fascista invase l’Etiopia nel 1928 del calendario etiopico (1935 del calendario gregoriano), il romano pontefice del momento, Pio XI, sperando che l’invasione da parte dei colonizzatori creasse condizioni favorevoli per un’invasione cattolica, benedisse e caldeggiò la spedizione militare per l’Etiopia volta a massacrare i cristiani etiopici e pregò anche perché l’esercito riuscisse nell’impresa».

Questa notizia si diffuse anche nell’ambito della propaganda fascista italiana allorché Mussolini sfruttò il film su Massaia, Abune Massias, per giustificare l’invasione dell’Etiopia. Purtroppo, la summenzionata Ethiopian Church News diffuse un grave errore sul papa, presentando fatti semplicemente non veri quanto al conflitto italo-etiopico. Purtroppo, i testi di storia etiopica dalla scuola media in su hanno tramandato questa affermazione sin dal 1944, e la maggior parte degli etiopi l’hanno accettata come un fatto storico.

Contro l’aggressione fascista

In verità, nei mesi precedenti l’ottobre del 1935, la posizione della Santa Sede fu alquanto ambigua per quel che riguardava il proprio coinvolgimento nella questione italo-etiopica. Dopo aver risolto la questione romana – il riconoscimento della Città Vaticana come Stato sovrano indipendente nel 1929 a chiusura del Patti Lateranensi – il papa tornò alla sua duplice funzione di capo spirituale della Chiesa universale e di capo di Stato temporale, benché in modo limitato. Nella sua politica ecclesiastica, in base all’articolo 24 del Concordato, il papa aveva acconsentito a rimanere “fuori delle questioni civili tra Stati e delle conferenze internazionali convocate a tale scopo, a meno che le parti contendenti, di comune accordo, non avessero fatto ricorso a lui per ristabilire la pace”. La tradizione, condizionata dal trattato, costrinse il Vaticano a rimanere fuori d’ogni contenzioso in ambito politico, che era esclusivamente secolare. In realtà, il Vaticano non “si distaccò mai, né con le parole né con gli atti, dalla sua formale neutralità” nell’ufficiale posizione politica.

Neutralità, però, non significa indifferenza: il papa e la diplomazia vaticana si preoccuparono delle conseguenze della campagna italiana in Etiopia. Nel gennaio 1935 il Vaticano seppe che Mussolini progettava un attacco contro l’Etiopia, che metteva la Chiesa in un dilemma estremamente delicato. Tuttavia, il 27 agosto 1935, pochi mesi prima della dichiarazione di guerra e dell’invasione italiana dell’Etiopia, Pio XI fece questa dichiarazione in una pubblica udienza ad un gruppo internazionale di circa 2000 infermiere: «Già Noi vediamo che all’estero si parla d’una guerra di conquista, d’una guerra offensiva: ecco una supposizione alla quale Noi non vogliamo nemmeno fermare il pensiero, ecco una supposizione sconcertante. Una guerra che non fosse che di conquista, sarebbe evidentemente una guerra ingiusta: ecco una cosa che passa ogni immaginazione, ecco una cosa indicibilmente triste e orribile. Noi non possiamo pensare a una guerra ingiusta, non possiamo ammettere la sua possibilità e la scartiamo deliberatamente. Noi non crediamo, non vogliamo credere a una guerra ingiusta».

Il papa deprecava l’invasione dell’Etiopia; alludeva a Mussolini come ad un «pazzo sconsiderato»; considerava la guerra una «cosa abominevole»; e si rifiutava di credere che l’Italia desiderava occupare e devastare un paese che aveva difeso il Cristianesimo contro l’Islam per tredici secoli. La Santa Sede provò ancora una volta con la diplomazia ad impedire che l’invasione avesse luogo. Il 29 settembre, Padre Venturi, portavoce del Vaticano, si presentò da Mussolini per scongiurarlo di evitare la guerra “per non mettere l’Italia in condizione di peccato mortale”. Irremovibile, Mussolini replicò che le democrazie erano decise a “sferrare un colpo mortale al fascismo”. L’invasione ebbe luogo; il 3 ottobre 1935, i fucilieri italiani fecero fuoco sugli etiopi a cavallo armati solo di spada. Monsignor Tardini scrisse: “L’ambizione di un uomo sta scavando la tomba per tutti gli italiani”.

Questo fu l’approccio storico di Pio XI: nessun altro approccio. Egli mai sostenne Mussolini o il massacro degli etiopi ad opera dei soldati di Mussolini. Pio XI, nonostante le sue riserve riguardo al governo fascista, specialmente dopo le ondate di violenza contro i cattolici da parte dei fascisti, cercò di trovare un’intesa con Mussolini nella speranza di “cristianizzare” il partito, sospettato di ispirazione massonica. Avendo Mussolini dichiarato pubblicamente d’essere cattolico, la sua “apertura alla fede era agli occhi di Pio XI un’occasione per toccarne la coscienza; per questa via, forse avrebbe potuto anche usare con lui un tono di voce ‘paterno’, diverso dai contatti con altri capi di Stato o di governo, atei o scettici, con cui il papa doveva ricorrere unicamente al linguaggio diplomatico”. Insomma, la Chiesa si aspettava da Mussolini un sistema politico nuovo, non orientato secondo il vecchio disegno “liberal-massonico” contro la Santa Sede. Comunque, si dall’inizio del movimento fascista, la Chiesa ne condannò la dottrina laica, come ne condannò la violenza usata per giungere al potere.

I cattolici guardavano con apprensione la penetrazione del fascismo nella società italiana, soprattutto la sua salita al potere con mezzi semi-legali e violenti. Durante questo periodo (prima metà degli anni ’20), Mussolini professò pubblicamente il suo rispetto per la Chiesa e il dovere del suo governo di difendere il Cattolicesimo. In effetti, egli pubblicamente ammetteva l’importanza del Cattolicesimo in Italia, ma non rassicurava la gerarchia ecclesiastica dagli umori del fascismo. Quando cercò di organizzare l’insegnamento della religione nelle scuole statali senza il consiglio né il consenso della Chiesa, Pio XI, constatando che l’aggressione anti-cattolica non cessava, chiese al suo segretario di Stato, Cardinal Gasparri, di notificare a Mussolini che, se tali attacchi contro la Chiesa avessero continuato, egli non avrebbe potuto fare altro che condannare pubblicamente il fascismo come irresponsabile, creando così una potenziale crisi tra Stato e Chiesa. Si pensava che le discussioni tra i due governi sarebbero cessate con il riconoscimento del Vaticano come Stato indipendente e sovrano. Al contrario, scoppiarono di nuovo quando Mussolini strinse accordi con Adolf Hitler. Papa Pio XI, convinto dell’adagio romano che “i governi passano, i documenti restano”, preferì accordi negoziati dal Vaticano a concessioni ottenute da partiti politici. Il papa era “impulsivo e irascibile”, pronto ad alterarsi ed a rispondere alle provocazioni senza ponderare le conseguenze, volubile e litigioso. Sotto di lui videro la luce le tre maggiori encicliche contro i regimi totalitari che minacciavano il Cristianesimo: Non abbiamo bisogno del 1931 contro gli abusi dell’Italia fascista, Mit brennender Sorge del 1937 contro quelli della Germania nazista, e Divini Redemptoris del 1937 contro i pericoli del comunismo ateo. Sotto la sua guida, il Vaticano e Civiltà Cattolica contestarono il nazionalismo integrale dell’Action Française, che rigettava la teoria cristiana della priorità della religione nei confronti della politica.

Nonostante il risultato favorevole della Questione Romana, Pio XI, pur notando sempre più chiaramente le due facce del linguaggio mussoliniano, sperava ancora di poter esercitare col tempo una certa influenza sul Duce e di indurlo a non seguire la strada di Hitler.

Pio XI era preoccupato degli stretti legami del governo italiano con Hitler e delle disastrose conseguenze che prevedeva inevitabili. Parlando del subbuglio tedesco in Cecoslovacchia, l’Osservatore Romano riferiva che là l’intolleranza razziale non era paragonabile alla politica antisemitica attuata in “qualche altro paese”. Durante la visita del Führer a Roma nel maggio 1938, Pio XI fuggì a Castel Gandolfo e diede ordine di chiudere i Musei Vaticani, che Hitler sperava di visitare; rifiutò anche di ammettere nella Città del Vaticano qualsiasi membro del partito ufficiale tedesco. I romani seguirono l’esempio del papa mostrandosi per nulla contenti della visita dei nazisti. Da Castel Gandolfo Pio XI lamentava che «era fuori tempo e luogo ostentare in Roma l’emblema di una croce che non era la croce di Cristo». Era rattristato dallo sbandieramento in Roma della “croce nemica del Cristianesimo”. Decise di fare qualche passo per denunciare la politica nazista. Più di un mese prima, il papa aveva ricordato, in una lettera che criticava espressamente Mussolini, come la Città Eterna, vale a dire la Sede del Vicario di Cristo, non avesse fatto alcuna resistenza ad accogliere trionfalmente “un nemico della Chiesa cattolica proclamatosi tale pubblicamente”.

Il fatto che, durante la visita a Roma nei giorni 3-9 maggio 1938, non ci fu una visita alla Città del Vaticano, testimonia o meglio manifesta l’acceso contrasto esistente in Germania nel periodo nazista fra la Chiesa cattolica e il Terzo Reich, nonostante il rapporto giuridico regolato forse da un concordato, che il Führer prese a violare subito dopo aver apposto la sua firma. Con i fatti conseguenti – in un’atmosfera inconsueta per un capo di Stato di una grande nazione che contava circa 27 milioni di cattolici – Hitler intendeva mandare un segnale forte ai cattolici tedeschi e alla Santa Sede. Voleva metter fine al suo scontro con la Chiesa e con il Cristianesimo, inconciliabili con le “nuove dottrine” promulgate dai socialisti nazionali.

Dopo quella visita a Roma, probabilmente Papa Pio XI decise di emettere un’enciclica contro il razzismo (soprattutto contro Hitler). L’idea cominciò a prender forma all’inizio dell’estate di quell’anno (1938), allorché egli diede al gesuita John La Farge – interessato alle idee razziste – in quei giorni di andirivieni per Roma, l’ordine di tracciare una prima bozza d’enciclica contro il moderno razzismo. Le linee furono discusse con il papa, al momento già malato. Con sorpresa di La Farge, Pio XI gli chiese di mettere per iscritto un’enciclica da poter rendere pubblica subito per la Chiesa universale, al fine di denunciare l’incompatibilità del Cattolicesimo con il razzismo. Il papa, che riteneva il progetto di capitale importanza, fece giurare a La Farge di tenere il segreto: forse intendeva rispondere ad una precedente richiesta da parte di Dr. Edith Stein, più tardi nota con il nome di Suor Teresa Benedetta della Croce, che lo aveva pregato di emanare un’enciclica sull’antisemitismo nazista e sulla questione ebraica. In ogni caso, il papa era deciso a continuare la lotta contro il razzismo e, per estensione, contro coloro che lo sostenevano. Come La Farge, il papa vedeva la necessità di affrontare sotto il profilo spirituale e morale la difesa dei diritti umani.

La lunga enciclica difendeva i diritti umani, condannava il razzismo e l’antisemitismo come perversi e “non permetteva ai cattolici di rimanere in silenzio di fronte al razzismo”. Metteva a fuoco il peccato del razzismo: “La Redenzione ha aperto la porta della salvezza all’intero genere umano”, e continuava, “ha stabilito un regno universale, in cui non c’è distinzione fra giudeo o gentile, fra greco o barbaro”. Benché il Ministero degli Esteri italiano negasse l’accusa da parte del papa che il razzismo italiano era una copia di quello tedesco, il pontefice persisteva nell’affermarlo. Protestò perché la stampa italiana censurava i suoi attacchi al razzismo riferendo i commenti nazisti. Fece denunciare dal suo nunzio per l’Italia, Mons. Borgongini Duca, la legislazione razzista del governo italiano. La dignità umana, ripeteva il papa, riguarda l’umanità intera. Queste affermazioni furono di guida agli autori della programmata enciclica e trovarono ovviamente posto nella Humani Generis Unitas. In uno sfogo finale, il papa disse: «No, non è possibile per noi cristiani prender parte all’antisemitismo […], (poiché) spiritualmente, noi siamo semiti».

Circa la stesura dell’enciclica è tutt’altro che facile ricostruire la corrispondenza con il papa, sofferente di cuore e di respirazione, la cui agenda veniva controllata da vicino e drasticamente ridotta, specialmente dopo i due infarti avuti il 25 novembre. Sia a Roma sia a Berlino, si credeva che egli avesse già “un piede nella fossa”. Persino le udienze con diplomatici erano ora limitate a cinque minuti a causa delle sue condizioni. Ma continuava a circolare la voce che Pio XI rimaneva irremovibile contro i nazisti e che era deciso a continuare la lotta contro le loro perverse dottrine. Alla fine di dicembre, in un incontro con il ministro britannico D’Arcy Godolphin Osborne, egli gli confidò con molta chiarezza “che la Germania nazista aveva preso il posto del comunismo come il più pericoloso nemico della Chiesa”.

L’Humani Generis Unitas (l’Unità del Genere Umano) sembrava dovesse essere promulgata l’11 febbraio 1939, decimo anniversario dei Patti Lateranensi. Dal papa, esasperato per l’esagerato nazionalismo”, per il razzismo e per la violazione dei diritti umani della Germania nazista, come pure per i suoi legami con Mussolini, fu fatta redigere in fretta da tre gesuiti, e tradurre in latino da un terzo. Fu presentata a Vladimir Ledochowsky, Generale del loro Ordine, alla fine di settembre 1938. Condannava gli orrori del fascismo: l’antisemitismo, il razzismo e la persecuzione degli ebrei. Ma, alla vigilia della prevista promulgazione, il papa morì. Non essendo mai stata promulgata, è passata alla storia con il nome di “L’Enciclica Nascosta” o “L’Enciclica Perduta”.

Il 23 ottobre 1938, il papa aveva confidato al P. Venturi: «Mi vergogno d’essere italiano. Tu, Padre, dillo a Mussolini, ti prego! Non come papa, ma come italiano ho vergogna di me stesso! Il popolo italiano è diventato un gregge di stupide pecore. Parlerò apertamente, senza paura. Mi sento spinto dal concordato, ma anche dalla mia coscienza. Sono veramente triste, come papa e come italiano».

Conclusione

Dobbiamo ricordare che tutte le maggiori potenze europee riconobbero la conquista italiana dell’Etiopia. Gli Stati Uniti, nonostante facessero sentire il loro dissenso riguardo alla nuova terra africana di Mussolini dopo l’invasione del 1935, fecero ben poco per intervenire. La pubblica opinione, come il Card. Spellman e Sylvia Pankhurst, indusse l’occidente a prendere atto di quel che la Santa Sede stava cercando di sventare. L’approccio diplomatico o “strategico” di Pio XII alla questione razziale differiva da quello di Pio XI, ma “è giusto non dimenticare il contesto in cui i due pontefici si trovarono ad agire: il primo ebbe ad affrontare gli emergenti movimenti che tendevano a sopraffare la Chiesa o a relegarla in un ruolo spirituale marginale; il secondo dovette assistere allo scoppio ed al graduale allargamento della guerra”.

Pio XI – afferma Coppa – non esitò a condannare apertamente il razzismo nazista e intese denunciarne anche l’antisemitismo, pienamente consapevole che ciò avrebbe fatto arrabbiare e scosso la Germania di Hitler, e probabilmente avrebbe indotto i nazisti a revocare il concordato. Durante gli ultimi due anni di pontificato, il papa aveva identificato il razzismo in un grave errore scientifico, un’apostasia o eresia religiosa e una tendenza totalitaria in violazione della legge naturale e del credo cristiano. Tale posizione era riflessa in maniera chiara nell’enciclica da lui commissionata. “La teoria e la pratica [del razzismo], che fanno distinzione fra razze più alte e razze più basse, ignorano il legame di unità…”, avvertiva il documento del 1938. Quindi aggiungeva: “E’ incredibile che, di fronte a questi fatti, ci siano ancora persone che sostengono che la dottrina e la pratica del razzismo non hanno nulla a che vedere con l’insegnamento cattolico riguardo alla fede e alla morale e nulla a che fare con la filosofia, e che sono soltanto una faccenda politica”. Considerando ciò che pensava e diceva e la sua volontà di affrontare i regimi totalitari, si può solo concludere che Pio XI, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe certamente promulgato l’enciclica che così bene rifletteva il suo pensiero sui diritti umani e sull’antisemitismo.

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Mario Alexis Portella

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