di Antonio Lovascio • La guerra al terrorismo islamico ha moltiplicato le cellule jjhadiste. I barbari del Califfato fanno stragi di vite umane non solo in Medio Oriente e Nord Africa. Il loro obiettivo ora è l’Europa: quasi impotente, è sotto assedio; vede minate le radici stesse della propria civiltà e torna ad essere teatro di attentati e di battaglie, come nella prima metà del Novecento. Ma non è più un conflitto concepito secondo schemi tradizionali. E’ “una guerra combattuta a pezzi” (lo aveva previsto Papa Francesco) cui si aggiungono i massacri di donne e bambini, perlopiù cristiani, da parte dei talebani in Pakistan.
Mentre l’ISIS – le cui rotte passano anche per l’Italia – si sta rivelando la più potente organizzazione eversiva della storia e il mostro della paura si diffonde a macchia d’olio, viene messa sempre più a nudo l’assenza di leadership. Ci sono sei stati falliti o in disfacimento: Afghanistan, Iraq, Libia, Mali, Siria e Yemen. Milioni di rifugiati che premono sui confini del Vecchio Continente, lasciato solo – e quindi più vulnerabile – da quando gli Stati Uniti hanno dismesso i panni del poliziotto globale, facendo capire che la questione dei rifugiati non è un loro problema.
Il panorama mondiale è segnato dal disordine internazionale: lo sostiene da tempo un analista attento, Ennio Di Nolfo. La Cina, seconda potenza globale, rafforza il proprio potenziale militare, navale e spaziale, avanza sorniona in Asia Centrale e nel Mar Cinese meridionale, dove costruisce isole artificiali, vere basi militari, e minaccia i Paesi minori del Pacifico con pretese territoriali. Semina apprensione in Corea del Sud e in Giappone anche per il comportamento ambiguo verso l’avventura nucleare di Pyongyang. Pechino nasconde poi il Pil in flessione e le contraddizioni insite nelle crescenti disparità del capitalismo tipico del partito-Stato, nella trasformazione demografica, in quella sociale e nell’inurbamento che generano una forte domanda interna. Nonostante il declino economico e demografico, il crollo del rublo e del petrolio, la trepidazione sociale e politica, le sanzioni per l’Ucraina, la Russia (seconda potenza nucleare) vive l’esaltazione nazionalista che nutre la popolarità di Putin, ignorando il lento accerchiamento della Cina.
La crisi cominciata negli Stati Uniti poco meno di dieci anni fa, le progressive diseguaglianze sociali e il senso del declino della potenza Usa nel mondo costituiscono l’humus del diffuso scontento che sta emergendo nelle primarie per la scelta dei candidati che si contendono la successione di Obama. Assorbito lo stimolo finanziario, ottenuta l’indipendenza energetica grazie al risparmio e agli idrocarburi estratti da scisti bituminosi, la ripresa economica è certo migliore che in Europa, ma è percepita come insufficiente e soprattutto asimmetrica perché privilegia i più ricchi: tra l’altro, all’aumento dell’occupazione, tornata ai vecchi livelli, non corrisponde quello della massa salariale; cosicché, di fatto, è calata la qualità dei nuovi posti di lavoro con conseguenze sulla struttura sociale. La classe media si sente esclusa, le disparità si sono ampliate e incidono sui programmi sociali, la polemica contro le banche e Wall Street si acuisce, le infrastrutture pubbliche sono consunte.
L’elargizione sfrenata di finanziamenti ai candidati semina dubbi sulla loro indipendenza. Le divergenze sulle questioni etiche infiammano gli animi e sfociano talora nella violenza privata, non priva a volte di risorgenti accenti razziali. I fattori etico-sociali , infatti, tagliano anch’essi attraverso lo spettro politico: dall’assistenza pubblica per le famiglie povere al possesso personale di armi che continua senza restrizioni malgrado i ricorrenti fatti di sangue; per non parlare delle lobby che si formano aggressive attorno a interessi particolari.
C’è “trasversalità” nei concorrenti di entrambi gli schieramenti: sembra fatta apposta per confondere ulteriormente un elettorato già disorientato anche per il dilagare del populismo umorale o ideologico, malattia che l’America condivide ormai con i Paesi europei. I Repubblicani tradizionali non si riconoscono nel folkloristico Donald Trump dall’insulto facile e nei proclami di Cruz e Rubio, in cui non ritrovano le amate dottrine conservatrici e l’ottimismo di Reagan. La tradizione dei Democratici è a disagio di fronte alla disinvoltura di Hillary Clinton (per cui tifano in molti dalle nostre parti) e non apprezza appieno il richiamo “socialista” del settantaquattrenne Sanders, che attrae i più giovani. Le primarie riservano spesso sorprese. Tuttavia, la sfida di novembre per la Casa Bianca sembrerebbe restringersi all’ex First Lady già Segretario di Stato e a Donald Trump, anche se l’establishment repubblicano cerca affannosamente un candidato credibile da contrapporgli alla Convenzione di Cleveland. Si parla anche della discesa in campo dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, ma come indipendente, un’esperienza finora rivelatasi sempre perdente persino per Roosevelt.
Se Atene piange, Sparta non ride. L’Europa, ancora alla ricerca di una sua identità, passa giorni tragicamente sconnessi tra gli attacchi del terrorismo islamico, la crescita impalpabile da cui non riesce a emergere, i problemi politici che condivide purtroppo con l’America, l’assedio dei disperati alle frontiere, l’obiettiva divisione interna che la strazia nelle emergenze e nel dissenso dalla Grecia al Regno Unito, e il travaglio che contrappone tanti dei suoi litigiosi membri a volte animati da grettezza e faciloneria. Mancando un’autorevole e riconosciuta “guida”, ha difficoltà a guardare a un vero orizzonte mondiale, al compito che le avevano assegnato i Padri Fondatori. Con una Casa Bianca indebolita, sarebbe ancor più difficile immaginare quale equilibrio mondiale possa formarsi e con quali protagonisti.