L’inaccettabile assenza del padre. Attualità di un saggio di Claudio Risé
di Gianni Cioli • Il saggio Il padre: L’assente inaccettabile (Cinisello Balsamo 2003), pubblicato quasi quindici anni fa da Claudio Risé, psicanalista di formazione junghiana, offre un’analisi sempre vera e più che mai attuale.
Nella società odierna, afferma l’autore, il padre è sempre più assente sia in senso fisico che simbolico. Dal punto di vista psicanalitico, secondo Risé, il compito del padre sarebbe quello d’insegnare e testimoniare che la vita non è solo appagamento, conferma, rassicurazione, ma anche perdita, mancanza, fatica. «Le esperienze più profonde, a cominciare dall’amore, prendono origine e forma proprio da quella perdita. Nella vita dell’uomo, il padre trasmette l’insegnamento della ferita perché la sua prima funzione psicologica e simbolica è quella di organizzare, dare uno scopo, alla materia nella quale il figlio è rimasto immerso durante la relazione primaria con la madre, e che di per sé tenderebbe semplicemente alla prosecuzione dell’esistente. Per questo il padre infligge la prima ferita, affettiva e psicologica, interrompendo la simbiosi con la madre (in cui il bimbo rimane fino a quando l’intervento paterno diventa di vitale necessità), e proponendo, da quel momento, allo sviluppo del bambino, una direzione, un télos, una prospettiva. Ogni prospettiva, però, focalizza lo sguardo su alcune direzioni e ne esclude altre. Valorizza certi comportamenti a scapito di altri. L’intervento del padre, dunque, limita, in una prima fase, la vita del giovane; lo ‘ferisce’, rendendolo più forte» (p. 12).
Il compito del padre è comprovato a livello antropologico dalla presenza di riti d’iniziazione nelle più disparate culture, come testimonia abbondantemente la letteratura etnografica ed etnopsicanalitica. Questi riti simboleggerebbero al tempo stesso lo strappo dalle braccia della madre e l’elevazione verso il cielo, verso il significato trascendente dell’esistenza. La società occidentale avrebbe deciso, secondo Risé, «per la prima volta nella storia del mondo, di fare a meno d’iniziazioni. Si vuole crescere senza ferite, senza perdite» (p. 20). Ma «dal punto di vista psicologico, il prezzo pagato al rifiuto della separazione del figlio, compiuta dal padre, e della sua elevazione verso il cielo, diventa allora la rinuncia a una società di adulti. Ormai ‘eterni fanciulli’, uomini e donne rimangono tutta la vita sul piano orizzontale del bisogno, prigionieri di una continua infanzia, fatalmente segnata dalla depressione, e dalla nevrosi» (p. 21). Lo scenario psicologicamente insicuro prodotto da un modello culturale che ha soppresso il senso della figura paterna conduce il singolo a vivere con terrore ogni prova della vita – di fronte alla quale si sente carente e inadeguato – e a rifiutare l’esodo dalle proprie sicurezze nell’assunzione delle responsabilità. Il rapporto autentico con il padre dovrebbe invece portare «nella vita umana l’esperienza dinamica del muoversi, dell’andare. E, assieme a quella, una libertà dall’attaccamento, dall’egoistico trattenere e trattenersi, freno di ogni ricerca e divenire» (p. 41).
Questa eclissi del padre terreno si coniugherebbe, secondo l’autore, all’eclatante crisi del senso religioso che affligge l’esistenza di tanti nostri contemporanei.
La difficoltà a reggere le ferite prodotte dalle perdite che accompagnano la trasformazione e lo sviluppo umano emerge in particolare da alcuni sintomi tipici della nostra società. «Nessuno accetta, ad esempio, di non essere più ‘giovane’. La perdita dell’adolescenza è diventata un lutto insopportabile, anche per i padri, pateticamente impegnati a essere gli ‘amici’, simulati coetanei dei loro figli. Sarebbe invece necessario vedere il senso di queste perdite per trasformarle in forza progettuale, spinta individuativa, realizzazione del Sé» (pp. 120-121). Tra tutte le perdite, secondo l’autore, «quella più inaccettabile da parte della società che ha ‘rimosso’ il padre, e il suo senso, è naturalmente la morte. Che è anche d’altra parte, quella più significativa, l’immagine stessa della perdita, quella che dà significato a tutte le altre. È proprio la morte, infatti, il massimo simbolo di trasformazione, il ‘passaggio’ che in tutte le culture è ritenuto il più ricco, quello in cui si compendia il senso della vita passata e, per chi ha fede, quello della futura. “Ribellarsi alla propria fine”, dice le psicologo Carl G. Jung, equivale a non voler vivere, giacché non voler vivere e non voler morire sono la stessa cosa”». Nell’occidente contemporaneo la morte risulta invece sterilizzata della sua fecondità vitale: appare «soltanto perdita, esperienza ormai priva di senso, in una società acquisitiva, che vuole solo ottenere, aggiungere, guadagnare». L’uomo occidentale non sa più «vedere l’aspetto di rinnovamento rappresentato dall’altra parte del ciclo vitale: la malattia, la vecchiaia e quindi la morte» (pp. 121-122). Risé coglie una forma inquietante di delirio d’onnipotenza in quei settori della medicina e della genetica che pronosticano la vittoria sulla morte come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, a patto di rinunciare alla riproduzione sessuata. Quest’ultima sottolineatura costituisce forse uno degli aspetti più interessanti e stimolanti del libro.
La forza e, al tempo stesso, il limite del saggio stanno nell’impostazione psicanalitica che ne costituisce la peculiarità. Sempre affascinante e in parte comprovata dai risultati clinici, l’interpretazione psicanalitica risulta tuttavia, alla fine, teoreticamente debole e tendenzialmente ideologica nella sua pretesa totalizzante. Così il libro non si sottrae talora all’impressione di contrapporsi con toni ideologici alle ‘ideolgie’ che, anche in virtù delle teorie psicanalitiche (!), avevano decretato la fine del padre. D’altra parte le società patriarcali non erano l’età dell’oro: i mali sociali non sono sorti tutti con la modernità e con la postmodernità, e un pur auspicabile ‘ritorno del padre’ non potrebbe costituire la soluzione piena dei problemi dell’Occidente. Nonostante queste riserve il libro risulta alla fine stimolante per la riflessione e la discussione su alcuni problemi chiave della nostra società e sulle sue evidenti difficoltà educative: una scossa salutare proprio nel tono ‘non politicamente corretto’ che Risé si compiace di assumere su temi quasi tabù, che rischiano spesso di non essere affrontati con piena onestà intellettuale. In questo senso, anche il dibattito teologico potrà senz’altro trarre giovamento dalle proposte e dalle provocazioni di questo saggio. In particolare, la riflessione teologico-morale potrebbe essere stimolata a recuperare il valore pedagogico della norma nella sua dimensione eteronoma, associandola alla funzione paterna in vista della maturazione del soggetto agente verso l’autonomia, intesa come saggezza e responsabilità e non come arbitrio./span>