di Leonardo Salutati • Lo scorso 17 febbraio è morto Michael Novak, grande fautore della «santa alleanza» tra il capitalismo d’impronta americana e la fede cristiana, considerato una figura di spicco del cattolicesimo liberale statunitense, amico e consigliere di Ronald Reagan che lo volle, tra l’altro, ambasciatore degli Usa alla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo nel 1981 e nel 1982, nonché amico di Margaret Thatcher. Più volte insignito di prestigiosi Premi internazionali, per anni ha diretto la Cattedra di Religion and Public Policy all’American Enterprise Institute di Washington DC, presentandosi come teologo e politologo.
Con il suo libro Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo (1982), cercò di dimostrare che il sistema americano è il frutto della inscindibile fusione tra il sistema politico democratico, il sistema economico liberale e il sistema culturale cristiano, impegnandosi a convincere i cattolici ad accettare il capitalismo di mercato. Un personaggio per molti aspetti controverso, acclamato dal mainstream politico-culturale liberale ma fortemente criticato da pensatori autorevoli ed esperti.
Novak infatti per anni ha inteso stabilire una relazione diretta ed immediata tra il capitalismo storico e il cristianesimo, ritenendo di poterne individuare i fondamenti all’interno dei testi del Magistero sociale della Chiesa, salvo il sorvolare sulle condanne presenti negli stessi documenti per quei meccanismi di sfruttamento attraverso il debito e la monopolizzazione, con i quali diversi Paesi in via di sviluppo (ma non solo loro) devono convivere, dando prova di un funambolico tentativo di “cattolicizzare” il liberalismo capitalistico e di “liberalizzare” il cattolicesimo.
All’indubbia bizzarria della sua applicazione delle parole del canto del Servo sofferente di Isaia 53 all’impresa moderna (in inglese corporation dunque un’attività imprenditoriale), considerata «un’incarnazione della presenza divina in questo mondo tra le più disprezzate» che condivide con Gesù l’umiltà, il rifiuto e il disprezzo degli uomini (Novak 1981), si aggiunge la sua considerazione di intellettuali e sacerdoti (chi più chi meno) come di oscuri e talvolta inconsapevoli alleati del sistema socialista che ha invaso come zizzania il florido campo del liberismo economico (Novak 1987). Non sfugge a questo giudizio Leone XIII, che osò pareggiare il liberismo e il socialismo come errori contrapposti, come pure Pio XI ritenuto funestamente complice delle ubbie socialiste, con la sua preoccupazione di riconquistare alla Chiesa la classe operaia tragicamente perduta nel secolo XIX, senza rendersi conto che la vera tragedia per la Chiesa fu il non aver capito la suprema bontà «eticoculturale» dell’economia liberista (Ibidem). Per non parlare degli ultimi papi (incluso l’attuale), i cui documenti magisteriali continuano a blaterare di «giustizia sociale», pace, sviluppo e solidarietà, ma senza venirne a capo, perché «procedono come se il capitalismo democratico non esistesse» (Ibidem). Una visione, in definitiva, che porta a ridimensionare moltissime pagine del magistero sociale della Chiesa, dimenticando che esistono «strutture di peccato», come quelle denunciate nel 1987 da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis.
Quando uscì la Centesimus annus, Novak e i suoi seguaci ne valorizzarono al massimo il passaggio su un presunto “consenso” al capitalismo, che tuttavia era fortemente condizionato nel testo. Novak scrisse: «Nel concilio Vaticano II Roma ha accettato l’idea americana di libertà religiosa, nella Centesimus annus ha assimilato l’idea americana di libertà economica». In realtà l’enciclica, al n. 42, ragionava adottando il metodo della distinzione. Si considerava ammissibile il capitalismo come «espressione della libera creatività umana nel campo dell’economia», con tutti i relativi corollari, ma non accettabile se inteso come «un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale». Del resto, la stessa enciclica era stata esplicita circa «il rischio che si diffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta persino di prendere in considerazione i fenomeni di emarginazione e di sfruttamento che permangono nel mondo e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato» (Ibidem).
Con la stessa pervicacia nel 2003, Novak tentò di convincere Giovanni Paolo II dell’utilità e della legittimità della 2° Guerra del Golfo, ottenendo però soltanto il rifiuto ad essere ricevuto in udienza dallo stesso Papa in veste di Inviato dell’allora presidente degli USA George W. Bush.
Il problema, ancora oggi, è che di questioni così gravi, e tuttora aperte, si parli con poca efficacia al fine di attivare un’opinione pubblica, almeno nella Chiesa, in grado di offrire utili, se non necessari, motivi di riflessione in una situazione di crisi di fede, che sta allargandosi nella società secolarizzata occidentale e in particolare negli ambienti di quel ceto medio tutto dedito agli affari, per il quale la religione cristiana è uno scolorito sfondo di memorie sconnesse, di simboli indecifrabili, o al più di cerimonie suggestive e di probi insegnamenti morali sempre un po’ astratti e utopici.