Il cieco nato. L’inusitata lettura di sant’Ireneo
Ora, in questa sottovalutazione o meglio dispregio sostanziale della creazione dal nulla e del processo della vicenda umana non c’era posto per una concreta storia della salvezza con tappe, smacchi, risultati donati dall’unico vero Dio. Per gli gnostici, non c’era un avanzare lento ma mirato verso la pienezza dei tempi in Cristo, vero Dio e vero uomo.
Con questi signori che pensavano a due esseri divini, a un dio a suo modo ‘giusto’ ma crudele della Legge, e al Dio Padre buono, tutto pace e gioia per chi è in grado di conoscerlo, si confrontò sant’Ireneo, vescovo di Lione, alla fine del secondo secolo. Ireneo si rifà al miracolo del cieco nato, che leggeva nel Vangelo secondo Giovanni, il quale era stato maestro del vescovo Policarpo, a sua volta suo maestro.
Nel miracolo del cieco nato Gesù dona la vista a quell’uomo che non l’aveva mai avuta. La dona non mediante una parola, come avrebbe potuto fare, ma «facendo del fango» per spalmarlo su quegli occhi morti prima d’essere mai stati vivi. Il Figlio di Dio lavora, si sporca le mani di mota e modella il fango per integrare quanto mancava alla plasmazione intrauterina del cieco, «perché l’opera di Dio fosse portata a compimento», come Gesù aveva detto agli apostoli che si domandavano il perché di quella cecità fin dalla nascita (Gv 9,16). E Ireneo deduce: «e questa è l’opera di Dio: la plasmazione dell’essere umano», e così Gesù, modellando o rimodellando, intendeva mostrare che è Lui quello stesso Dio, creatore e artefice, che un tempo aveva plasmato Adamo ed Eva.