di Francesco Vermigli • Il titolo del presente articolo è forse ambiguo: chi si fermasse a quello, non è detto associ in prima battuta il termine “quaresimali” a quello di cui tratteremo. È possibile che la mente vada altrove, ad alcune tradizionali soluzioni culinarie che sono state escogitate, per segnare il tempo liturgico che precede la Pasqua. Ma per quanto non disdegneremmo di parlare nelle nostre righe di biscotti e di dolcetti di varia foggia, altro è l’intento dell’articolo.
Con “quaresimali” intendiamo piuttosto quell’uso – assai radicato nella storia – di tenere prediche connotate da una certa forma e da un determinato stile, in quel periodo di quaranta giorni nel quale la Chiesa vive la preparazione al Triduo pasquale. Nel corso dei secoli, alcuni dei più grandi scrittori si sono esercitati nella predicazione di omelie quaresimali, che nel tono e nella struttura interna si distinguevano nel generale panorama della loro stessa omiletica. Schiere di più o meno famosi predicatori hanno richiamato le folle alla conversione dei cuori; talvolta, raccogliendo poi – o facendo raccogliere da solerti redattori – le proprie prediche, che potevano così circolare anche al di fuori della più o meno ristretta cerchia degli astanti. È sufficiente spulciare i cataloghi di antiche biblioteche, per poter apprezzare la diffusione di questo genere che da orale qual era in origine, diventava letterario; nel momento in cui quelle omelie quaresimali venivano messe su carta. Ripensare a quei sermoni, significa dunque riandare con il pensiero a chiese piene, a oratorie accorate e accese, a voci stentoree; quelle che sole potevano essere in grado di raggiungere tutti, in assenza dei moderni sistemi di amplificazione.
In questo contesto, a qualcuno, forse, tornerà alla mente l’opinione di Marshall McLuhan su cosa abbia significato nella storia della liturgia – e dell’oratoria ecclesiastica in modo specifico – l’introduzione del microfono; medium, ai suoi occhi, per eccellenza freddo e asettico, che schiaccia e appiattisce le capacità espressive di chi parla e colloca in quella che definiva una “bolla di suono” avvolgente e indistinta, coloro che ascoltano.
Si potrà dire allora che tornare a quella storia di prediche di grande impatto e di notevole emotività sia semplicemente un’operazione nostalgica. Non sappiamo se sia così. Tuttavia notiamo come quei sermoni avessero una qualità che non deve essere lasciata passare. Vale a dire che – senza disperdere le forze tanto di chi scrive quanto di chi legge nella presentazione dettagliata, ma in definitiva un po’ pedante, di tale vicenda storica – se andiamo al cuore della funzione di questa tipologia omiletica, possiamo cogliere qualcosa di utile ancora per i nostri giorni.
A cosa servivano i quaresimali? In ultima istanza, a cosa miravano? Si direbbe, in sintesi, che i quaresimali avevano lo scopo di far comprendere con tutta l’arte di cui era capace l’oratore, quale sia il significato del tempo di Quaresima. Al netto del tema concreto o del particolare episodio della storia sacra che poteva essere affrontato nella singola predica, quest’ultima tendeva a richiamare l’attenzione sull’essenziale di tale periodo liturgico. Si potrebbe allora spostare la domanda: se le prediche quaresimali servono a porre attenzione all’essenziale della Quaresima, a cosa serve e a cosa mira quest’ultima? Non v’è chi non sappia che il cuore della Quaresima è l’appello alla conversione e al cambiamento di vita; siglato, come si sa, da una delle due formule che – all’inizio dello stesso cammino quaresimale – il celebrante pronuncia nel rito dell’imposizione delle ceneri. La Quaresima ha lo scopo di far prendere coscienza al cristiano che una vita che subisce le fascinazioni di un mondo di illusioni e falsità, è una vita dispersa. Compiendo un passo ulteriore, ci si potrebbe allora chiedere se il messaggio della Quaresima non sia in definitiva lo stesso messaggio cristiano, quello che invita alla metanoia e alla trasformazione del cuore e della mente.
In ultima analisi, le prediche quaresimali appaiono come una sorta di amplificazione di un appello radicale e interiore, che impatta direttamente sul cammino di vita cristiano. L’appello alla conversione di tali sermoni richiama il verbo ebraico šuv, che indica il movimento di colui che torna sui propri passi e segue il Signore; risuona delle parole accorate e mai dome dei profeti dell’Antico Testamento. Ricorda che la fede cristiana è fede che chiede la comunicazione di un messaggio; che chiede che all’uomo di ogni tempo sia fatto conoscere cosa significa porsi alla sequela del Signore. Quelle omelie ricordano alla Chiesa che la conversio – tanto quanto la fides – è ex auditu; dal momento che, parafrasando Paolo (cfr. Rm 10,14-15), nessuno potrà dare credito all’appello alla conversione, se nessuno gliel’ha mai annunciato.
L’appello alla conversione – pur in presenza di immagini che hanno fatto forse il loro tempo – è, ci pare, ciò che di più forte l’antica tradizione delle prediche quaresimali lascia al cammino della Chiesa di oggi.