di Andrea Drigani • Nel Martiriologio Romano al giorno 19 maggio si ricorda San Celestino V Eremita e Papa. Pietro di Morrone nacque ad Isernia nel 1215 e morì nel castello di Fumone il 19 maggio 1296. Fu monaco benedettino stimato e amato per la sua fama di santità. Il 18 luglio 1294 venne annunciata la sua elezione a Romano Pontefice, che accettò, sia pur con riluttanza, assumendo il nome di Celestino V. Ben presto si rese conto di non poter svolgere efficacemente l’ufficio al quale era stato chiamato e, dopo essersi consultato con alcuni cardinali, tra i quali Benedetto Caetani (il futuro Bonifacio VIII), il 13 dicembre 1294, dinanzi al Collegio cardinalizio, lesse la formula della propria abdicazione, libera e spontanea. Pochi giorni dopo, il 24 dicembre, il conclave eleggeva Papa Bonifacio VIII. Nell’intento di evitare l’influenza di Carlo II d’Angiò, re di Napoli, Celestino V fu condotto e custodito, per ordine di Bonifacio VIII, nel castello di Fumone presso Alatri, dove visse sino alla sua morte. Il suo corpo su sepolto a Ferentino, poi nel 1327 venne traslato a Collemaggio (L’Aquila). Fu canonizzato da Papa Clemente V il 5 maggio 1313. Su Celestino V, com’è noto, grava un persistente giudizio sfavorevole originato, tuttavia, da una misteriosa affermazione contenuta nella Divina Commedia. Nel Canto III dell’Inferno si trovano le anime degli ignavi, di coloro cioè che non presero parte né per il bene, né per il male. E’ in questa turba di grigi dannati che Dante vede e riconosce: «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». Sull’identificazione di quest’anima dannata, che Dante lascia senza nome, i commentatori della Divina Commedia, cominciando dai più antichi, si sono sbizzarriti e la gran parte sembra propendere per Celestino V, che rinunciando al Pontificato Romano aveva aperto la strada a Bonifacio VIII fieramente contestato da Dante. Diversamente dalla maggioranza degli esegeti danteschi, Natalino Sapegno (1901-1990), professore ordinario di storia della letteratura italiana all’Università di Roma, nel ribadire che sin dai primi tempi tale interpretazione non fu mai sicura (e citava a tal scopo Giovanni Boccaccio che sebbene accettandola premetteva che «chi costui si fosse non si sa assai certo»), riteneva che quell’ombra avesse la caratteristiche di «un personaggio-emblema, termine allusivo di una disposizione polemica che investe, non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi». In effetti, a ben riflettere, Celestino V non rifiutò, bensì rinunciò. Bonifacio VIII con la Decretale «Quoniam» stabilì le regole dell’abdicazione papale, che mise nella collezione canonica «Liber Sextus» da lui promulgata nel 1298. Bonifacio VIII aveva previsto che quando il Romano Pontefice si rende conto di essere insufficiente a reggere la Chiesa universale («se insufficientem agnoscit ad regendam universalem ecclesiam») e a sopportare gli oneri del sommo pontificato («summi pontifictus onera supportanda»), poteva rinunciare al papato e al suo onere e onore («renunciare valeat papatui eiusque oneri et honori»). Questa disposizione di Bonifacio VIII fu confermata nel canone 221 del Codice di Diritto Canonico del 1917, ed è stata riportata nel canone 332 § 2 del vigente Codice di Diritto Canonico, emanato nel 1983, nonché nel canone 44 § 2 del Codice dei Canoni delle Chiese orientali cattoliche, pubblicato nel 1990. La memoria di San Celestino V non può non farci venire in mente la rinuncia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI comunicata l’11 febbraio 2013. Essa suscitò sorpresa e stupore, anche perché avveniva dopo otto secoli, ma era un atto ad un tempo rivoluzionario e legittimo. Nella decisione di Papa Ratzinger riecheggiano realmente le motivazioni della decretale di Bonifacio VIII. Quando il titolare di un ufficio ecclesiastico, compreso quello di Romano Pontefice, per un insieme di circostanze, percepisce di non poter esercitare con cristiana responsabilità i propri compiti, proprio per evitare di essere un ignavo, gli si apre la via della rinuncia che non è un rifiuto, ma la dimostrazione di servire la Chiesa e di non servirsi della Chiesa.