Domatori o domati ? Ultime malefatte di Mammona
Federico Rampini, corrispondente della «Repubblica» da New York, ha scritto un libro breve e agile intitolato Banche: possiamo ancora fidarci ? e pubblicato alla fine di Marzo 2016 dalla Mondadori. Il libro è stato scritto di getto, trattando anche di eventi accaduti recentemente, e a mio avviso riesce nell’intento di rendere digeribili temi finanziari che normalmente risultano abbastanza ostici per i non addetti.
Certe sofferenze bancarie sono spesso buttate sulle spalle del risparmiatore e, d’altra parte, lo stesso impiegato allo sportello è costretto con l’acqua alla gola a piazzare certi titoli per non perdere il suo posto di lavoro, non più sicuro come un tempo. Rampini rileva che nel 2015 ci sono stati almeno 26.000 licenziamenti alla Deutsche Bank. Nello stesso anno, l’Unicredit ha ridotto 18.200 posti, di cui 6.900 in Italia. «Benché non ci siano stati crac paragonabili a Lehman Brothers, anche il 2015 è stato un anno tremendo: a livello mondiale, nei primi nove mesi le banche hanno tagliato 52.000 posti di lavoro, poi nell’ultimo trimestre c’è stato un’impennata, altri 47.000 licenziamenti annunciati solo dal 1° ottobre al 31 dicembre. L’emorragia è pesante anche se commisurata all’occupazione totale del settore. Una delle più grandi banche americane e mondiali, Citigroup, ha perso il 36 per cento dei suoi dipendenti dagli albori della crisi del 2008. La Royal Bank of Scotland a furia di cure dimagranti si è sbarazzata del 53 per cento dei suoi addetti. La svizzera Ubs ne ha cacciati il 29 per cento» (p. 11).
Il povero risparmiatore si trova quindi a dover discernere molto attentamente come impiegare i propri soldi. Rampini ricorda un tristissimo fatto di cronaca recente. Il 28 novembre 2015 a Civitavecchia, Luigino «D’Angelo, titolare di obbligazioni subordinate della Banca Etruria, si è ucciso nella cittadina laziale dopo aver scoperto che aveva perso tutto: circa 100.000 euro investiti in quei titoli all’inizio del 2013. “Chiedo scusa a tutti” ha scritto alla moglie prima di uccidersi “non è per i soldi ma per lo smacco subito”. Cosa sapeva, quanto gli era stato spiegato, sui potenziali rischi di quei titoli ? Quanti altri italiani si trovano in una situazione simile, avendo comprato con i propri risparmi dei titoli di quella categoria senza sapere esattamente cosa facevano e quanto rischiavano ?» (p. 28).
Purtroppo è ancora assai difficile finanziare e aiutare con i propri risparmi l’economia reale “che mette mano alla pala” saltando a pié pari il sistema bancario. Da una parte, solo grandi imprese riescono a farsi finanziare in parte anche direttamente dai risparmiatori. D’altra parte, anche se è «aumentato il numero di risparmiatori, soprattutto in America, che si gestiscono il portafoglio titoli da soli, su Internet», questi «si sobbarcano qualche rischio in più. Chi si affida a un gestore professionale, almeno in teoria, è un po’ più al sicuro perché gode dell’esperienza altrui. A patto, però, che il gestore sia davvero esperto e davvero onesto. Due condizioni non scontate» (p. 46). E si ritorna alla solita questione della lealtà alla vocazione di “addomesticatore” di denaro.
Si sa che la stessa variazione del potere di acquisto del denaro ci mette il suo zampino nel complicare ulteriormente le cose. A tale riguardo, un problema classico è sempre stato quello dell’inflazione: normalmente una quantità di moneta sempre maggiore messa in circolazione fa sì che una quantità fissa del mio denaro compri sempre meno beni col passare del tempo. Oggi ci si trova a misurarsi col fenomeno, più raro e temibile, che prende il nome di “deflazione”. Essa tende a “raffreddare” l’economia: se una quantità fissa di denaro compra più beni col passare del tempo, un soggetto, più spesso ricco o comunque meno nel bisogno, può essere incentivato a ridurre i consumi per attendere ulteriori ribassi. Una riduzione dei consumi provoca una riduzione della produzione, che provoca una riduzione dell’occupazione e dei salari, che provoca un impoverimento generale, che naturalmente grava più sulle spalle di chi è povero.
Ultimamente anche la Banca d’Italia ha avuto qualche défaillance, concretizzatasi in importanti ritardi sulla vigilanza dell’operato di certe banche. Rampini nota che c’è «un equivoco latente sul mandato della banca centrale. Una missione istituzionale della Banca d’Italia consiste nel garantire la stabilità del sistema creditizio, nonché la stabilità patrimoniale delle singole banche. Non è la stessa cosa che garantire la sicurezza dei risparmi degli italiani». Normalmente le due cose vanno in parallelo altrimenti non si spiegherebbe proprio la funzione della Banca d’Italia. Però in certi casi «questi obiettivi sono addirittura in conflitto tra loro» (p. 54).
Lobby ancora più potente di quella della banche è quella delle agenzie di rating. Per certe categorie di investimento è vietato l’acquisto di titoli che non abbiano rating. Obama ha cercato di eliminare il valore legale dei rating ma senza successo. Inoltre, la valutazione che le agenzie danno ai titoli è pagata da «chi emette titoli. Il cliente che si fida di quei giudizi di solvibilità può non sapere che sono pagelle pagate da chi riceve i voti» (p. 76).
C’è una figura che il banchiere può prendere da esempio ? Rampini racconta molto brevemente la storia di un italiano nella costa occidentale statunitense a cavallo tra ‘800 e ‘900: «Amadeo Giannini, figlio di immigrati da Favale di Malvaro, in provincia di Genova. Fondatore, a San Francisco, di quella Bank of Italy che poi fu ribattezzata Bank of America e tuttora è uno dei più grandi istituti di credito degli Stati Uniti e del mondo. Perché San Francisco non sarebbe diventata una tecnopoli leader mondiale, senza di lui ? Perché il 18 aprile 1906 quella città fu rasa al suolo da un terremoto, poi seguito da una serie di incendi. Era un cumulo di macerie fumanti, la rovina era tale che forse la sua popolazione si sarebbe arresa, trasferita altrove. Uno dei pilastri dell’economia cittadina, a quell’epoca, era l’industria della pesca. Quasi tutti immigrati italiani, dai liguri ai siciliani. Giannini aveva fondato la Bank of Italy a San Francisco meno di due anni prima, il 17 ottobre 1904, ma era già un imprenditore facoltoso. Di fronte alla desolazione della città dopo il sisma, andò a recuperare i forzieri sepolti sotto i detriti. Li caricò su un carretto, per trasferirli al sicuro a casa sua, nella cittadina di San Mateo (oggi vicina all’aeroporto San Francisco International). E sparse la voce tra i suoi clienti: si fa credito per la ricostruzione, perché San Francisco deve rinascere. Chi erano i suoi clienti? Niente hi-tech, allora. Erano the little fellow, letteralmente “la piccola gente”. Pescatori, artigiani dell’inscatolamento del pesce, fruttivendoli. Arrivavano a casa sua dopo aver perso tutto, anche i documenti d’identità. Lui gli stringeva la mano, “e dai calli sentiva che erano gente per bene, lavoratori”. Apriva la cassaforte, tirava fuori le banconote per il prestito. Perché dovevano poter ripartire, al più presto. Gli storici della California sono concordi su questo punto: se San Francisco rinacque dalle ceneri, più vitale di prima, è perché dietro ci fu l’impegno straordinario del suo banchiere italiano» (pp. 119-120).