Dare del “Tu” alla propria fragilità

200 308 Alessandro Clemenzia
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maxresdefaultdi Alessandro Clemenzia • Dare del “Tu” a Dio, volgendo lo sguardo sulla precarietà della propria condizione umana. Si potrebbe sintetizzare con queste parole il volumetto, recentemente uscito, che raccoglie tre brevi saggi, già pubblicati in: La fragilità di Dio. Contrappunti teologici sul terremoto (a cura di Brunetto Salvarani, EDB 2013). Come si può evincere dal titolo, si è voluto riflettere, alla luce dei terremoti che hanno sconvolto l’Emilia Romagna e le zone limitrofe nel 2012, su come conciliare una visione dell’onnipotenza e dell’onniscienza di Dio con l’esperienza di precarietà, fragilità e povertà che abitano quotidianamente il cuore dell’uomo.

Ciò che rende appassionante questo percorso tematico è il passaggio, richiesto all’occhio del credente, da uno sguardo intelligente sulla realtà a un nuovo modo di comprendere Dio; e come quest’ultima comprensione possa a sua volta illuminare il significato della propria e altrui esistenza.

Se nel volume uscito nel 2013 il luogo d’indagine era il dramma del terremoto, e tutto ciò che esso ha causato nell’interiorità dei singoli e nella socialità degli abitanti colpiti, nel recente opuscolo il medesimo curatore, Brunetto Salvarani, ha decisamente allargato l’orizzonte dai disastri sismici di una singola regione a quel relativismo collettivo che caratterizza la cultura odierna. Di fronte a tale provocante scenario, la teologia riscopre la sua originaria vocazione: rivisitare il proprio modo di annunciare Dio e la sua azione nel mondo.

La Scrittura presenta spesso figure che hanno saputo indicare al Popolo eletto un’ulteriorità di significato del dolore e della sofferenza della circostanza, per cui anche una situazione totalmente destabilizzante per Israele, come ad esempio l’esperienza dell’esilio, può diventare il luogo di un nuovo inizio.

Un passo in più viene compiuto attraverso il grande paradosso della storia: Gesù, la risposta del Padre all’umanità, muore lanciando un grido d’abbandono nella forma di una domanda: “Perché?”. La Verità crocifissa offre all’uomo un nuovo modo di porsi davanti al proprio fallimento e alla propria finitezza: non si tratta più di rintracciare un’ulteriorità del negativo, poiché è proprio quel negativo il luogo abitato da qualcosa d’altro; con il grido d’abbandono, culmine dell’incarnazione, e alla luce della resurrezione tutta la realtà è stata transustanziata.

Da questa nuova consapevolezza esistenziale scaturisce una vera riconciliazione con la propria precarietà; ed è su questa novità che riflettono i tre contributi ripubblicati.

Moni Ovadia, scrittore e compositore ebreo, nel suo testo “La divina perplessità”, sottolinea come l’onnipotenza di Dio sia capace di far spazio all’altro da sé: un altro dotato di libertà, di scegliere il bene e il male. Questo far spazio ha un significato particolare, come afferma il Talmud Pirkei ’avot: «Per la pace fra marito e moglie, Io (dice il Santo Benedetto) sono disposto a lasciare che il mio Nome scritto in santità venga disciolto come polvere nell’acqua» (pp. 23-24). Si tratta di un Dio capace di rinunciare alla propria identità perché l’altro sia, e perché l’altro sia sempre libero di essere se stesso. E qui si delinea la “forma” dell’onnipotenza divina: il desiderare ardentemente una relazione con l’altro da sé, creandolo addirittura capace di rifiutare ogni possibile rapporto col suo Creatore.

Lidia Maggi, teologa battista, nel suo contributo “Un Dio fra le macerie”, spiega – sulle tracce del racconto di Giobbe – come l’uomo, colpito da continui terremoti esistenziali, sia trasversalmente messo in crisi, anche nella sua relazione con Dio. E proprio qui appare la fragilità divina: Egli «non può contare sulla nostra adesione incondizionata» (p. 29). La sua onnipotenza pertanto si manifesta proprio nell’essere così debole da legare la sua esistenza a creature incapaci di corrispondere. Fragilità e debolezza di Dio dipendono, dunque, dal suo essere amore: non sono dinamiche psicologiche, ma ontologiche modalità relazionali. Questa passione per l’altro si intravede sin dalla creazione, nel suo desiderare che l’altro fosse: «Egli non parla a se stesso, nel mito antico, ma chiama le cose a essere, le nomina per nome. Prima ancora di esistere, i singoli elementi del creato sono cercati e chiamati: Luce! Cielo! Terra» (p. 31). Dio è presente, non “gestendo” il mondo, ma abitando tutte le sue ferite e contraddizioni.

Piero Coda, teologo cattolico, nel suo contributo “Il segreto della fragilità”, dopo aver illustrato i diversi modi di intendere la fragilità, evidenzia come il significato più autentico possa riscontrarsi in quella Parola di Dio che carne si è fatta, entrando così nel limite della realtà umana: come si manifesta dalla povertà della mangiatoia, al suo costante mettersi in gioco nel relazionarsi con gli altri, fino al grido d’abbandono. Ma proprio nel culmine della sua fragilità che l’uomo può affermare: ecce Deus. L’evento della resurrezione getta una nuova luce tanto sul significato della fragilità di Dio, quanto su quello della fragilità umana. E più ancora: «L’esperienza della fragilità, se la leggiamo con gli occhi di Gesù, ci avvicina a Dio. Anzi, ci fa entrare nel mistero del suo amore, che è amicizia e libertà» (p. 51).

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