«Teologia con la mente aperta e in ginocchio…»: il discorso di Papa Francesco alla Gregoriana
di Francesco Vermigli • Giovedì 10 aprile, papa Francesco ha incontrato nell’aula Paolo VI la comunità dei docenti, degli studenti e del personale della Pontificia Università Gregoriana e degli istituti consociati del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale. Un incontro, per quanto ci è dato sapere, fortemente voluto dal pontefice, legato – ça va sans dire – ai suddetti istituti dalla comune ispirazione ignaziana. Discorso breve, ma densissimo nelle parole usate e nel tono assunto; arricchito da un lungo saluto con le autorità accademiche, i cardinali, i vescovi e quasi ciascuno di noi che eravamo presenti. La prima immagine utilizzata per rappresentare il compito del docente e dello studente di teologia, è stata quella della dialettica – che gli è cara – tra il centro e le periferie. Chi viene a Roma, compie un movimento, per così dire, centripeto, che conduce al centro della cattolicità: si arriva in un luogo ricolmo di storia (ad limina Apostolorum…), ma anche mosso da desideri vibranti che rendono conto della vitalità di quella Chiesa «che presiede alla carità, al servizio dell’unità e della universalità». E gli stessi che sono partiti dalle periferie sono chiamati a tornarvi: «dentro questo orizzonte la dialettica tra “centro” e “periferie” assume una forma propria, cioè la forma evangelica, secondo la logica di Dio che giunge al centro partendo dalla periferia e per tornare alla periferia». Ma è su un altro punto che il papa si è soffermato con maggior dettaglio e più grande carica emotiva, come segnalato dai modi consueti della sua oratoria: l’alzare gli occhi dal testo scritto, l’inserimento di alcune frasi a braccio, lo scandire a voce rotonda alcune parole; a voler richiamare l’attenzione sul punto capitale di quello che si sta dicendo. L’aspetto di più accorata analisi è stato il rapporto tra studio e vita spirituale: qui il papa ha usato parole fortissime, radicali, che interpellano e in qualche modo risvegliano una “coscienza teologica” che troppo spesso tende a intiepidirsi. Il teologo, dice il papa, che non fa teologia con la mente aperta e in ginocchio, non è in grado di accogliere quel maius che è Dio e la sua verità. È destinato in ultima istanza al narcisismo: «il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori, è disgustoso». Dire di uno stile teologico che è “disgustoso”, non è cosa di poco conto. Ma cosa di questo fare teologia provoca il “disgusto”? Lo chiarisce lo stesso papa: «il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre». Il pericolo grande cui è sottoposto il teologo è quello di pensare la propria riflessione non come una teologia, ma come la teologia. L’apertura di mente si potrà, allora, pure intendere come apertura alle sfide attuali, come capacità di “guardare lontano”; ma prima ancora, nelle parole del papa è il riconoscimento che il teologo deve fare della propria fallibilità intellettuale, dell’inesauribilità dell’Oggetto di studio, del carattere ecclesiale della propria riflessione. In primo luogo, dunque, mente aperta significa avere consapevolezza della propria condizione di mendicante di verità. E allora l’altro polo del binomio utilizzato – la “teologia in ginocchio”, che si direbbe di matrice balthasariana – non risulta che un rafforzamento dell’immagine precedente della “mente aperta”. Parole esagerate? Forse. Ma non è da questo modo “narcisistico” di pensare le cose che sono di Dio, che si originano l’autoreferenzialità e quel carattere, si direbbe, quasi programmaticamente anti-ecclesiale di una parte non marginale, ad esempio, della teologia tardo-novecentesca? E forse non è da questo stesso stile teologico che si derivano un certo clientelismo accademico che separa gli studiosi in consorterie – per così dire, l’una contro l’altra armata – e non li percepisce come appartenenti alla più vasta, e fraterna, comunità ecclesiale, intatta oltre la legittima diversità di opinione? E non genera forse anche quella sterilità tecnicistica del pensiero che non è in grado di offrire alcunché alla vita spirituale del singolo e a quella pastorale della comunità? E come potrebbe donare qualcosa quella teologia che appare del tutto refrattaria ad accogliere? Parole esagerate, quelle del papa, e conclusioni affrettate quelle di chi scrive? Forse. Non ne dubito. Specie per quanto attiene alla seconda parte della domanda, si capisce… Ma mi chiedo: dovremmo forse pensare che al solo teologo sia concesso, mirabile visu, di essere dispensato dalle dinamiche tipiche della natura umana, ferita dal peccato? Tutto è possibile. Ma il buon senso e un sano realismo cristiano ci conduce ad escludere, purtroppo, questa fortunata possibilità…