di Gianni Cioli • Negli ultimi tre decenni del novecento, soprattutto nell’ambito della filosofia anglosassone, si è svolto un vivace dibattito sull’opportunità di ricuperare la sostanza dell’etica delle virtù, tipica del pensiero antico e medievale, di fronte agli emergenti limiti della moderna morale che privilegia la categoria del dovere e l’elaborazione di un etica normativa. La morale delle virtù, è stato osservato, può definirsi etica della prima persona, che privilegia il punto di vista del soggetto agente. La morale del dovere può definirsi, invece, etica della terza persona che privilegia il punto di vista dell’osservatore, del legislatore e del giudice. Per comprendere la differenza si può utilizzare la metafora del navigatore satellitare. Presupposta una meta, nella guida con il navigatore satellitare è sufficiente affidarsi a indicazioni che giungono dall’esterno (l’osservazione del satellite che interagisce con un itinerario digitalizzato) senza necessariamente riflettere sulla direzione che si sta percorrendo. Nella guida che non fa ricorso al navigatore il conducente non si affida invece a indicazioni esterne, ma deve interpretare con la propria intelligenza la corrispondenza alla meta della strada che sta percorrendo. Allo scopo potrà seguire le indicazioni di una cartina stradale facendole interagire con i segnali eventualmente disponibili lungo il percorso, oppure potrà affidarsi alla memoria, se ha già fatto quella strada, e magari chiedere anche informazioni lungo la via in caso di dubbio, ricorrendo comunque sempre al proprio buon senso. Apparentemente la guida con navigatore può sembrare migliore e più veloce, ma non sempre i percorsi sono digitalizzati e non sempre sono adatti al tipo di veicolo che si sta guidando. Per giunta il navigatore non è in grado di segnalarmi, in tempo reale, interruzioni accidentali e talora anche pericolose che possono sempre verificarsi. Non posso dunque obbedire pedissequamente alle indicazione del navigatore abdicando al buon senso e all’osservazione del percorso reale. La morale delle virtù, o della prima persona, è quella che mi abilita a orientarmi anche senza navigatore. Fuori di metafora si preoccupa di formare in me le qualità per condurre la mia vita nel suo percorso reale. Non nega l’utilità di un’etica normativa condivisa, ma la ritiene insufficiente. La prima virtù da considerare in questa prospettiva è la prudenza che potremmo definire come la qualità di chi cerca di ottimizzare la propria ragione pratica, ovvero la propria capacità di scegliere bene. La prudenza come la ragione pratica ha due volti uno cognitivo e uno direttivo. Essa conosce e decide. Non è in grado di indicarmi la meta, ma presupposta questa, mi guida nel percorso. Per un cristiano, oltretutto, la percezione della meta presuppone l’esperienza della fede, della speranza e della carità. Data la meta questa rimarrebbe, tuttavia, un sogno etereo se non fossi in grado di operare un percorso. L’itinerario operativo di chiunque miri al bene richiede innanzitutto un impegno cognitivo. Non si può fare il bene senza attenzione alla realtà, senza onestà intellettuale e la fatica di adeguarsi, per quanto possibile, all’oggettività della situazione che non dipende e dai propri desideri. La tradizione tomista ha segnalato tre parti integranti – virtù nella virtù – della saggezza in quanto cognitiva (cf. Summa Theologiae q. 49): la memoria, presupposto necessario di ogni conoscenza obiettiva, la docilità, disponibilità ad apprendere dall’esperienza altrui e la solerzia, elasticità mentale irrinunciabile per misurarsi con la realtà. La prudenza, come si è detto, ha anche un volto direttivo al quale corrisponde, come premessa, un’altra parte integrante: la provvidenza, ovvero la capacità di vagliare con sicurezza se una determinata azione potrà divenire realmente via alla realizzazione del fine. Naturalmente la prudenza non potrebbe esistere se non fosse sostenuta dalle virtù propriamente etiche che ruotano intorno alle altre virtù cardinali: giustizia, fortezza e temperanza, che ineriscono alla volontà e agli appetititi passionali. Il buon esercizio della ragione pratica presuppone la considerazione e la rettificazione non solo della dimensione razionale della persona, ma anche di quella affettiva ed emotiva. La prudenza, in quanto virtù cognitiva, necessita infatti un amore previo per il bene; in quanto direttiva richiede alla persona una disposizione affettiva capace di accoglierne ed eseguirne i dettami. La morale della prima persona richiede dunque l’esercizio di una pluralità di virtù che stanno fra loro in rapporto organico. L’“organismo virtuoso” è un fenomeno complesso, perché complessa è la persona umana in quanto soggetto «razionale, volitivo, passionale», «fragile, discorsivo, mutevole e precario» (G. Abba, «L’apporto dell’etica tomista all’odierno dibattito sulle virtù», Salesianum 52 [1990], p. 811).