Forme di Chiesa. Dagli Atti degli apostoli verso la parrocchia
di Carlo Nardi • L’apostolo dopo un po’ di tempo, per forza di cose, se ne deve andare dal luogo in cui ha evangelizzato. Lo si vede a proposito di Paolo negli Atti degli apostoli. Ha parlato prima agli ebrei e, se non gli è andata proprio male, qualcuno ha creduto alla sua parola che in quel Gesù di Nazareth l’attesa è compiuta, perché è Lui quello che doveva venire. Poi ha parlato ai greci, ai pagani un genere. Se non gli hanno detto: “Via via, andiamo a prendere un caffè”, come potrebbe essere il tono delle parole degli ateniesi (Atti 17,32), c’è il caso che qualcuno abbia creduto che è Gesù la vera acqua che disseta, il vero pane che alimenta, il vero pastore che guida, la Ragione piena, il senso del vivere e morire, il Logos, e così via. Se hanno creduto che l’uomo Gesù è il Verbo di Dio nella sua pasqua di morte e risurrezione, si forma una comunità di cristiani: comunità di fede attorno a quella parola ricevuta; di culto per fare quello che Gesù ha fatto e comandato di fare a partire dal battesimo; di vita, appunto per vivere come Lui ha vissuto.
Ma l’apostolo se ne deve – deve! – andare, perché è voluto altrove: ci sono altri che chiamano o, meglio, Dio tramite le circostanze gli fa capire che è atteso. C’è quindi anche il momento degli addii, come al porto di Mileto. Lì san Paolo si accomiata da chi è venuto a salutarlo anche dalla vicina Efeso (Atti 20). Sono quelli che Paolo chiama alla greca episcopi (Atti 20,28) – che potremmo tradurre con “soprintententi” o “ispettori”, se non ricordasse troppo i ministeri dei beni culturali e della pubblica istruzione -, e presbiteri (Atti 20,17), i venerandi “anziani”. Sono rispettivamente i nostri vescovi e preti? Direi qualcosa di simile, anche perché san Paolo chiama le stesse persone un po’ vescovi e un po’ preti. Comunque, di lì a qualche decennio, nel secondo secolo, in ogni comunità cristiana cittadina attorno al mar Mediterraneo appare un vescovo aiutato da due gruppi, quello dei preti e quello dei diaconi.
Sono comunità partecipi della vita della città antica e nello stesso tempo consapevoli di una loro provvisorietà: sanno di «non avere in questo mondo la loro città definitiva» (Ebrei 13,14), percezione anche dell’anonimo autore della Lettera a Diogneto. Tant’è che quelle comunità si chiamavano paroikíai, di per sé “sobborghi”, “periferie”. La parola allora indicava grosso modo la diocesi, ma avrà fortuna per designare anche la parrocchia. Come si erano formate quelle comunità? Per un passa parola – anche la parola del vangelo – da persona a persona, da famiglia a famiglia – famiglie peraltro dove c’erano insieme pagani e cristiani –, da comunità a comunità, da città a città. Spesso c’erano scambi di lettere impegnative come si vede dal Nuovo Testamento e poi negli scritti dei Padri apostolici. Più diffusi però dovevano essere i biglietti personali tra parenti, colleghi e amici, come fanno pensare quelli conservati sotto le sabbie dell’Egitto dove si parla del più e del meno, ma qualche volta anche di Nostro Signore.
Così avveniva in genere nel mondo mediterraneo a cominciare dai variegati porti, attraverso la navigazione e le grandi vie di comunicazione disponibili nel territorio dell’Impero romano. Nei regni vicini, invece, come poi nei regni delle popolazioni germaniche o slave, si convertiva il re, ritenendo magari d’aver vinto una battaglia grazie all’intervento del Dio dei cristiani, e i sudditi volenti o nolenti, per amore o per forza si “convertivano”. Le virgolette sono d’obbligo. Il re faceva edificare o restaurare chiese, come Clodoveo nei confronti della basilica di San Martino a Tours, e la chiesa diventava del re, chiesa di sua proprietà o almeno sotto il suo controllo: il signore ci metteva a suo piacimentio vescovo e preti.
A Roma c’era stata un’altra prassi. I primi cristiani si riunivano in case private, ovviamente belle ed ampie, e quindi spessi di senatori. Si trattava di gruppi, di comunità, già rammentate da san Paolo nella Lettera ai Romani (16,1-16): nel secondo secolo si struttureranno attorno a un prete, in dipendenza dal vescovo, il papa che, in segno di comunione gerarchica, inviava a quei preti nei vari quartieri un frammento dell’eucaristia da lui celebrata. Ebbene ampie parti di quelle ville private diventavano chiese, da beni privati a pubblici, di pertinenza del popolo cristiano come corpus christianorum. Erano i cosiddetti tituli affidati dal vescovo alla cura di un prete. Questo avveniva a Roma in modo evidente nel terzo secolo, dove si vedono già sorgere istituzioni grosso modo come le nostre parrocchie.
Di lì a poco sarà la struttura del cristianesimo anche nelle campagne. Per questo motivo la parola paroikía “sobborgo” da diocesi vorrà dire “parrocchia”: un popolo con le sue case attorno ad una casa, la sua chiesa, nella provvisorietà di chi sa che il definitivo è altrove, nella dimora eterna.